La lettura che viene proposta in questa sede segue fedelmente l’itinerario binario tracciato da Norberto Bobbio in “Liberalismo e Democrazia”1. A partire dalla definizione del Liberalismo, inteso come limitazione dei poteri e delle funzioni dello Stato (in nome della libertà individuale), che assume però un significato pieno solo rispetto al concetto di Democrazia intesa come distribuzione del potere ai cittadini (in nome dell’uguaglianza). Poche le digressioni rispetto alla sintesi efficace di Bobbio, in sostanza circoscritte ad un limitato approfondimento sulla questione dell’origine naturale o positiva del diritto e a brevi rappresentazioni del pensiero di Karl R. Popper e John Rawls.
Bobbio inizia il suo percorso da Benjamin Constant che, in un discorso pronunciato all’Ateneo reale di Parigi nel 18192, coglieva l’antinomia tra la libertà degli antichi (intesa come distribuzione dei diritti politici) e quella dei moderni (la fruizione dei diritti privati). In realtà con questa distinzione Constant voleva marcare la differenza tra l’idea di democrazia come sovranità attribuita a Rosseau3 e la concezione di un Stato liberale fondata sui diritti naturali dell’individuo. Gli stessi diritti naturali invocati nelle carte fondamentali delle rivoluzioni americana e francese. Bobbio contesta il principio giusnaturalistico di Constant e quello analogo dello stato di natura di Locke4. L’affermazione che gli uomini in natura siano tutti uguali ed indipendenti e possano riconoscere tale condizione se solo lo vogliono, è secondo Bobbio un’argomentazione fantastica utilizzata strumentalmente per conferire un fondamento naturale alla limitazione dei poteri dello Stato. Invece il corso della Storia procede in senso inverso: dall’asservimento ad un potere assoluto verso la conquista di spazi di libertà sempre più ampi. Sulle concezioni giusnaturalistica e positivistica del diritto si vedano le tesi contrapposte di due filosofi, Ernst Cassirer e Hans Kelsen.
Cassirer, riscoprendo e valorizzando la filosofia di Ugo Grozio, forse il vero padre del giusnaturalismo, partiva dall’analogia con la matematica e riteneva che anche il diritto potesse trovare in sé i principi originari e le norme universali che non sono esterni all’uomo ma intrinseci alla sua mente5. In altri termini il diritto ha un suo fondamento naturale la cui origine non è divina ma risiede nell’attività dell’intelletto ed è basata sulle idee innate nell’uomo. Per meglio comprendere questo approccio occorre tornare all’analogia con la matematica: il teorema di Pitagora esiste in sé ed era vero anche prima che Pitagora lo descrivesse. La stessa considerazione, secondo Cassirer, vale per il diritto i cui fondamenti esistono in sé e sono appunto i fondamenti naturali. In questo modo veniva compiutamente definito un giusnaturalismo laico che si distingueva da quello religioso perché la fonte del diritto non era esterna (la rivelazione divina) ma immanente all’uomo. Il giusnaturalismo laico, altresì, si opponeva al dispotismo sia che derivasse da una supposto radicamento del diritto nella tradizione sia che riconoscesse allo Stato un potere giurisdizionale assoluto. La legge dello Stato non poteva che basarsi su un diritto originario, antecedente e naturale, in forza del quale i cittadini stabiliscono un contratto e creano lo Stato stesso. Secondo Cassirer sono questi diritti, inalienabili in quanto naturali, che costituiscono la base teorica sia della rivoluzione americana che di quella francese e che sono espressi nelle rispettive Dichiarazioni. Cassirer scriveva queste tesi nel 1932, proprio mentre la Repubblica di Weimar crollava ed il nazismo prendeva il sopravvento.
Di segno opposto la tesi di Kelsen che nel 1963 provvide a sistematizzare il positivismo giuridico precedente strutturandolo in una dottrina pura del diritto6. Kelsen giudicava alla stregua di una fede l’idea di un fondamento naturale del diritto che sebbene immanente e non trascendente tendeva comunque ad assumere la connotazione di una giustizia superiore. Egli partiva dalla differenza tra norma, che è una prescrizione, ed asserzione, che è una affermazione. Una norma può essere valida a prescindere dall’affermazione. Accade, per esempio, quando due leggi entrano in conflitto: “Quando la norma morale ci comanda di non uccidere in nessun caso un uomo e la norma giuridica, invece, ci comanda di uccidere uomini in guerra o in esecuzione di una pena capitale, in questo caso noi abbiamo certamente la possibilità di scegliere a quale delle due obbedire e quale delle due infrangere. Ma non abbiamo il potere di invalidare la norma alla quale non obbediremo. Essa resta valida … Il dualismo tra norma e asserzione, dover essere ed essere, volere e pensare ha una conseguenza inevitabile: che non esistono valori oggettivi, ma solo quelli soggettivi”.
Dopo aver chiarito che il liberalismo va inteso come difesa dei diritti privati e positivi (rinvierà ad un altro testo l’analisi più dettagliata sulla natura del diritto), Bobbio prosegue oltre precisando l’idea di Stato che ne deriva. Egli ritiene che il liberalismo si configura come una concezione che contiene almeno due aspetti distinti: ”il liberalismo è una dottrina dello stato limitato sia rispetto ai suoi poteri che rispetto alle sue funzioni. La nozione corrente che serve a rappresentare il primo è stato di diritto; la nozione corrente per rappresentare il secondo è stato minimo”7. In questa definizione è pienamente riconoscibile l’idea negativa di libertà come definita da I. Berlin8 e intesa come libertà “da” interferenze coattive.
In tale contesto dottrinario lo Stato diventa un male necessario tanto meno minaccioso quanto più i suoi poteri e le sue funzioni sono limitati. Ai fini della libertà diventa dunque decisiva la difesa degli spazi privati che storicamente si è realizzata a partire da due ambiti, religioso ed economico, secondo Max Weber strettamente connessi9. Certo è che il liberalismo inizia ad affermarsi con la fine del confessionalismo di stato e l’emergere della società mercantile. Su quest’ultimo aspetto da ricordare il pensiero di Adam Smith10 che pure sosteneva il primato della libertà individuale sul potere sovrano. Nella concezione liberale lo stato di diritto si oppone all’assolutismo e lo stato minimo all’interventismo.
Von Humboldt11 introduce nel liberalismo il concetto di varietà individuale che si contrappone alla tendenza verso l’uniformità prodotta da uno Stato eccessivamente interventista. La varietà deve invece essere preservata in quanto rappresenta la ragione della competizione sociale e del progresso morale ed economico. In questo senso il liberalismo si ricollega a quanto sostenuto da Kant12 a proposito dell’antagonismo come strumento necessario di miglioramento intendendo per antagonismo la tendenza dell’uomo a far valere i propri interessi in concorrenza con gli altri. A questo punto il liberalismo non è più solo un’idea di libertà ma diventa un criterio di interpretazione della realtà nel momento in cui i diritti individuali sono interpretati come necessari alla crescita della società e quindi come motore dello stesso divenire storico.
Sul difficile rapporto tra liberalismo e democrazia, Bobbio sostiene che i due ideali siano compatibili solo se la democrazia viene intesa in senso formale ovvero come sistema di regole attraverso il quale distribuire il potere ai cittadini. Se invece la democrazia viene intesa nella sua accezione sostanziale, ovvero in termini di eguaglianza, allora essa è antitetica al liberalismo: una società liberale è inevitabilmente inegualitaria così come una società egualitaria è obbligatoriamente illiberale. E questo perché il liberalismo concepisce la società come “individualistica, conflittualistica, pluralista” mentre nella democrazia la società è “totalizzante, armonica, monistica”. La sola eguaglianza ammissibile nella concezione liberale è l’uguaglianza dei diritti inviolabili e l’uguaglianza di fronte alla legge.
Bobbio conclude che liberalismo e democrazia sono compatibili, ed anzi la seconda costituisce la naturale evoluzione del primo, solo se la democrazia viene intesa su un piano formale come sovranità popolare ovvero come distribuzione del potere ai cittadini. Da questo punto di vista la democrazia è un metodo attraverso il quale si estende a tutti i diritti politici (il diritto politico del voto e della rappresentatività politica) e quindi un ampliamento dello stesso stato di diritto. Questo connubio è oggi così forte che non è più pensabile realizzare, come pure è accaduto in passato, uno stato liberale non democratico o uno stato democratico non liberale: “oggi soltanto gli stati nati dalle rivoluzioni liberali sono democratici e soltanto gli stati democratici proteggono i diritti dell’uomo: tutti gli stati autoritari del mondo sono insieme antiliberali e antidemocratici”.
Nel XIX secolo il liberalismo europeo inizia a diversificarsi proprio sulla base dei rapporti che esso stabilisce con la democrazia formale. In questo periodo si definiscono compiutamente un’interpretazione conservatrice che rifiuta l’uguaglianza, considerata foriera di disordine, ed un’ispirazione radicale che accoglie e valorizza la democrazia nel suo aspetto formale. Secondo Bobbio i due massimi rappresentanti sono, rispettivamente, Alexis de Tocqueville13, 14 e John Stuart Mill15, 16. Entrambi, comunque, avevano ben presente i rischi della tirannide della maggioranza insiti nella democrazia.
A Mill in particolare si deve l’ulteriore evoluzione della teoria liberale in senso utilitaristico. Egli muoveva dalle osservazioni di Bentham che già giudica una “sciocchezza” l’attribuzione di un origine naturale ai diritti individuali e proponeva il principio di utilità come fonte di ispirazione legislativa17. Mill elabora l’utilitarismo benthiano: “le azioni umane sono giuste nella misura in cui tendono a promuovere la felicità”18. Da qui la necessità di definire la sfera di influenza dello Stato che è legittimato ad intervenire per restringere le libertà individuali solo quando queste vengono esercitate a discapito della comunità. Viene ribadita l’idea negativa di libertà ma si afferma nel contempo la concezione di una libertà collettiva intesa come somma delle singole libertà: la libertà di ciascuna individuo finisce dove inizia la libertà di un altro.
Mill è un convinto sostenitore della democrazia politica. Egli ritiene che un suffragio allargato e un’adeguata legge elettorale possano garantire dai rischi della dittatura della maggioranza. Il suffragio propugnato da Mill include le donne ma esclude gli analfabeti e tutti coloro che non fossero disposti a pagare una tassa per fruire del diritto di voto.
Secondo Bobbio il connubio tra liberalismo e democrazia (formale) sarà favorito dallo sviluppo del socialismo nella seconda metà dell’Ottocento e dall’avvento dei totalitarismi del Novecento. Invece, rimarrà sempre radicalmente antagonistico il rapporto teorico con il socialismo che metterà in discussione quella libertà economica (e la proprietà privata) che costituisce uno dei principi basilari del liberalismo e la ragione stessa della sua nascita. Bobbio sottolinea il velleitarismo delle formule “liberalsocialismo” e “socialismo liberale” e ricorda la polemica tra Einaudi e Croce, il primo assertore convinto di un liberalismo che non potesse non implicare la libertà economica, il secondo più incline a separare il piano morale da quello economico19. Bobbio rileva che il corso degli eventi ha finito per dare ragione a Einaudi in quanto sempre più, negli anni recenti, si è andata rafforzando l’equazione liberalismo-liberismo, un’acquisizione definitiva per i teorici contemporanei, a cominciare dal massimo esponente Friederich von Hayek20, premio Nobel per l’economia nel 1974, che si concretizza nell’idea dello Stato minimo.
La sintesi di Bobbio è prevalentemente centrata sugli aspetti politici del liberalismo con i suoi inevitabili riferimenti in ambito economico. Meno sviluppata, e limitata ai tempi antichi, è invece la parte che riguarda l’epistemologia nella sua relazione con l’etica. Su questo tema non si può non ricordare quello che è considerato forse il più grande filosofo liberale del XIX secolo, Karl. R. Popper, la cui mancata citazione da parte di Bobbio non è certo segno di trascuratezza ma probabilmente espressione della consapevolezza che il contributo teorico del filosofo austriaco sia di portata tale da travalicare i confini del liberalismo per diventare un’acquisizione dell’intera cultura occidentale. Tuttavia, proprio per la sua rilevanza generale, si ritiene di dover ricordare l’opera di Popper a partire da un contributo lontano, passato pressoché inosservato perché pubblicato nel 1983 in un ambito specialistico, la rivista di medicina “British Medical Journal”. Un contributo prezioso anche perché proposto insieme a Neil McIntyre, prestigioso rappresentante della Royal Free Hospital School of Medicine di Londra21.
In questa sede basti ricordare che l’insegnamento di Popper va oltre la filosofia della scienza. Così come le teorie scientifiche sono valide sino a quando non ne viene dimostrata la fallacia, analogamente le idee filosofiche sono accettabili sino a quando resistono ad una critica razionale. Il metodo della fasificabilità della teoria scientifica diventa il metodo della criticabilità della teoria filosofica. Ne discende che non esistono teorie definitive e che la conoscenza, in ambito scientifico come nel campo filosofico, è un continuo divenire. Il conseguente rifiuto di ogni totalitarismo ed il modello di società aperta suggerito da Popper rappresentano il suo contributo alla tradizione del liberalismo politico.
Un altro autore unanimemente considerato fondamentale per la filosofia del Novecento è John Rawls che pur essendo di estrazione liberale pone con forza la questione dell’uguaglianza entrando di diritto nella tradizione democratica. Nel testo “Una teoria della giustizia” Rawls si colloca consapevolmente nella tradizione del contratto sociale segnata da Locke, Rousseau e Kant22. La sua riflessione tuttavia non parte da uno stato di natura che giudicava non plausibile. Egli, invece, immagina gli individui posti in uno “stato originario” ovvero in assenza di strutture sociali e politiche che determinano disuguaglianze e nell’incertezza totale del futuro. In questa condizione tutti gli individui tendono a mettersi nella posizione di non subire danno e, secondo Rawls, sarebbero innanzitutto costretti a stabilire una base comune consentendo agli altri e scegliendo per sé stessi di fruire di una libertà controllata (massima libertà compatibile con un’analoga massima libertà degli altri). In secondo luogo gli uomini sarebbero disposti ad accettare le ineguaglianze sociali ed economiche a due condizioni: che ne risultasse un vantaggio per tutti e che a tutti fosse data la stessa posizione di partenza. In altri termini gli individui, in uno stato originario, sarebbero costretti ad un accordo equo. La giustizia sociale assume così le sembianze dell’equità. Alla base della riflessione di Rawls vi è l’assunzione che il comportamento di ciascuno sia razionale. Ma se questo non accade sono allora le istituzioni a dover intervenire per determinare quelle condizioni di “ineguaglianza controllata” che garantiscono sia la libertà che l’equità.
La concezione di Rawls contrasta con l’approccio utilitaristico della tradizione liberale nella quale una società può essere considerata giusta quando raggiunge il massimo benessere netto che, nella sostanza, diventa il maggiore benessere possibile per il più ampio numero di individui possibile. Questo approccio sacrifica inevitabilmente la componente meno fortunata della società che dispone di una quota inferiore di beni primari, sia sociali (reddito, opportunità, potere) che naturali (salute, intelligenza). La vita delle persone è fortemente influenzata dalle condizioni in cui si trovano alla nascita che sono indipendenti dalla loro volontà e legate invece a fattori economici e sociali pre-esistenti. Assumendo come valido il principio che in un mercato competitivo si raggiunge la massima efficienza possibile (l’ottimo paretiano del linguaggio economico), comunque non si può non tener conto dell’allocazione iniziale delle risorse che privilegia alcuni e sfavorisce altri. Rawls sostiene una visione egualitaria complessa nella quale lo Stato interviene a garantire la giustizia distributiva assicurando a tutti la stessa dotazione iniziale di beni sociali (in particolare l’educazione e l’istruzione) e tenendo conto delle ineguaglianze naturali. Nella concezione di Rawls le ineguaglianze naturali (l’intelligenza) diventano accettabili ed anzi vanno favorite solo quando e nella misura in cui producono un vantaggio anche per chi è sfavorito. Ne consegue un forte interventismo dello Stato, un sistema di tassazione mirato alla redistribuzione equa, un politica anti-monopolistica intransigente. La connotazione fortemente egualitaria, che si allarga ai diritti politici e sociali, avvicina Rawls alla tradizione democratica più di quanto la sua concezione libertaria, quella strettamente inerente i diritti civili, lo accosti a quella liberale.
CDL, Tivoli, 8 Maggio 2013
1. Norberto Bobbio. Liberalismo e Democrazia. Simonelli, Milano, 2006.
2. Benjamin Constant. Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, 1819.
3. Jean-Jaques Rousseau. Il contratto sociale, 1762. A cura di Liberliber.
4. John Locke. Due trattati sul governo, 1690. A cura del Dipartimento di Scienze della Politica Università degli Studi di Pisa. Pisa, Edizioni Plus, 2007.
5. Angelo Bolaffi. In difesa del diritto naturale. Ernst Cassirer. Micromega 2:91-115, 2001.
6. Angelo Bolaffi. Diritto naturale senza fondamento. Hans Kelsen. Micromega 2:116-155, 2001.
7. Norberto Bobbio. Liberalismo e Democrazia, op. cit.
8. Isaiah Berlin. Two concepts of liberty. In: Four Essays On Liberty. Oxford, Oxford University Press, 1969.
9. Max Weber. The Protestant ethic and the spirit of capitalism. Tubinga, 1904-1905
10. Adam Smith. An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, 1776.
11. Wilhelm von Humboldt. The sphere and duties of government (the limits of state action), 1792 (1854 ed.)
12. Immanuel Kant. Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico. 1784. Bollettino telematico di filosofia. Online Journal of Political Philosophy.
13. Alexis de Tocqueville. Democracy in America. Vol. 1. London, Saunders and Otley, 1835.
14. Alexis de Tocqueville. Democracy in America. Part the second.The social influence of democracy. New York, Langley, 1840.
15. John Stuart Mill. De Tocqueville on democracy in America, 1840.
16. John Stuart Mill. On liberty. Boston, Ticknor and Fileds, 1863.
17. Jeremy Bentham. Anarchical fallacies. Being an examination of the declarations of rights issued durino french revolutions. In: The Works of Jeremy Bentham. John Bowring . Edinburgh, William Tait, 1838-1843.
18. John Stuart Mill. Utilitarianism. London, Longmans, Green, Reader and Dyer, 1871.
19. Sulla controversia si veda: Carlo Scognamiglio Pasini. Liberismo e liberalismo nella polemica tra Croce ed Einaudi. In: La Rivoluzione liberale e l’Italia: (1996-2010) il quindicennio perduto.
20. Friederich August von Hayek. In: Dizionario di filosofia Treccani.
21. Neil McIntyre, Karl R. Popper. The critical attitude in medicine: the need for a new ethics. British Medical Journal 1983 ; 287: 1919-23.
22. L’idea di giustizia sociale di Rawl è tratta da un saggio di Lorenzo Pecchi: John Rawls (1921-2002), teorico della giustizia sociale. Rivista di politica economica, sett-ott. 2002.