Élites, oligarchie, classi dirigenti, un potere concentrato. Che cosa governa veramente una democrazia rappresentativa, elettiva, non diretta? Il tema è stato proposto da Scalfari in un editoriale pubblicato su La Repubblica del 2 Ottobre 20161. Il problema è in parte lessicale e in parte semantico.
Sostiene Scalfari, ribadendo il concetto in un editoriale successivo2, che «L’oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum». Per una serie di ragioni ed in particolare per la impraticabilità tecnica del ricorso continuo al referendum in un Paese di grandi dimensioni (demografiche e geografiche), l’alternativa possibile è solo tra dittatura e oligarchia democratica. Per oligarchia Scalfari intende la classe dirigente (apicale e intermedia) che si forma in democrazia solo in parte con il consenso del popolo.
La riflessione di Scalfari si colloca a pieno titolo nel solco della “teoria delle élites”, intesa in senso ampio e comprensiva di orientamenti anche molto diversi che hanno però in comune l’assunzione di base3: la tendenza intrinseca di ogni aggregato sociale a produrre una oligarchia. In qualunque collettivo umano, sono sempre emerse delle élites che sono riuscite ad accumulare una maggiore quantità di risorse la cui natura varia in rapporto al contesto (la ricchezza nelle società mercantili, il comando nei regimi militari, il potere politico nelle democrazie e nelle dittature, la cultura nelle organizzazioni più evolute). Molti i problemi di contenuti posti da questa definizione: dalla legittimità politica e sociale dell’élite alla sua effettiva corrispondenza con il merito, dalla sostanziale omogeneità alla sua multiforme pluralità, dal rapporto unidirezionale governanti/governati alla loro relazione osmotica. Dalle valutazioni su questi aspetti scaturiscono i diversi orientamenti che caratterizzano la teoria: dalle interpretazioni più reazionarie a quelle progressiste. In questo contesto teorico si apre la riflessione di Scalfari. Volendone fare l’esegesi, si può inferire che egli faccia riferimento in particolare agli studi di Robert Michels (1876-1936) sulla socialdemocrazia tedesca dai quali è scaturita la formulazione di una delle “leggi fondamentali” delle élites: «chi dice democrazia dice organizzazione, chi dice organizzazione dice oligarchia, chi dice democrazia dice oligarchia». Altro discorso poi è se la democraticità del sistema venga salvaguardata dal fatto che la élite sappia interpretare l’interesse generale, sia sottoposta ad “approvazione” popolare, abbia carattere plurale, sia pienamente permeabile e sostituibile in una competizione con altri gruppi. Proprio un dibattito su questi temi era, presumibilmente, l’intento di Scalfari.
«Però la democrazia rappresentativa non è un ossimoro» afferma Nadia Urbinati in un articolo comparso su La Repubblica il 4 Ottobre4. La studiosa argomenta «…L’elemento democratico non sta solo nel voto (eguale nel peso e individuale) ma nel voto che prende corpo all’interno di una società plurale, fatta di un reticolo di opinioni, liberamente formate, comunicate, associate, discusse e cambiate… La temporalità del potere (la sua brevità di esercizio) che l’elezione immette nel sistema e la subordinazione dell’eletto (o del candidato) all’opinione di ordinari cittadini: questo fa della democrazia rappresentativa non un ossimoro e non una malcelata oligarchia, ma un governo unico nel suo genere … Nella tensione mai risolta fra diffusione e concentrazione del potere (democrazia e oligarchia) sta la dinamica della democrazia rappresentativa».
Nel rispondere a Scalfari, Zagrebelsky individua nel conflitto l’elemento caratterizzante della democrazia: «La democrazia è conflitto. Quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie. In sintesi, la democrazia è lotta per la democrazia e non sono certo coloro che stanno nella cerchia dei privilegiati quelli che la conducono. Essi, anzi, sono gli antagonisti di quanti della democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti degli esclusi che reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle decisioni politiche, il diritto di contare almeno qualcosa5». Su queste affermazioni vale la pena di fare due considerazioni.
Innanzitutto Zagrebelsky intende la democrazia come governo (o lotta) della componente “popolare” della società. Era così nell’antica Grecia quando la democrazia era apertamente e legittimamente contrastata dall’oligarchia e dall’aristocrazia che propugnavano l’egemonia di altre classi sociali. Questa concezione partigiana della democrazia era ancora molto diffusa ed anzi prevalente nella prima metà dell’Ottocento. Con Marx diventerà dittatura del proletariato, la cui natura chiaramente oppressiva sarà successivamente appena stemperata dall’ammissione che tra i valori egemoni affermati dalla classe operaia potesse trovare posto anche il pluralismo politico e sociale. Con Mazzini la democrazia diventa il sistema politico rappresentativo dell’intero popolo nella sua pluralità e conflittualità6. Ed è questa idea che costituisce tuttora la base culturale delle democrazie liberali.
Quello del conflitto è il secondo tema posto da Zagrebelsky. Evidente il richiamo alla tradizione machiavellica del conflitto come motore di progresso verso equilibri sociali ed istituzionali sempre più avanzati7. In opposizione al pensiero allora dominante sulla necessità di sterilizzare i conflitti (Hobbes affiderà tale missione al sovrano), Machiavelli ritiene che il conflitto non solo non sia eliminabile, perché irriducibile è la pluralità del corpo sociale, ma assume anzi una funzione positiva perché determina il progressivo assestamento delle istituzioni su equilibri sempre più stabili in quanto sempre più rappresentativi della volontà popolare.
Scalfari8 si è detto deluso dalla risposta di Zagrebelsky che in effetti ha centrato solo in parte il problema delle oligarchie. Ammesso dunque che sia la “legittimità del conflitto” a differenziare la democrazia da ogni altro regime, occorre ricondurre il discorso alla questione posta da Scalfari. Per concludere che le classi dirigenti in una vera democrazia rappresentativa, a differenza di quanto accade nei regimi oligarchici, sono sottoposte ai due principi della contestabilità e dell’accountability. I cittadini hanno la facoltà di contestare il potere politico attraverso il diniego del consenso elettorale, l’attivazione dei meccanismi di garanzia, la forme legittime di lotta e di protesta. Rispetto alla contestabilità, l’altra faccia della medaglia è l’accountability, l’obbligo da parte della classe politica di rendere conto del proprio operato. Due sono gli aspetti sostanziali dell’accountability: il dovere di rispondere da parte di chi prende le decisioni (answerability); il potere correttivo (anche di natura sanzionatoria) da parte degli organismi di garanzia (enforcement)9. Sotto il profilo formale invece l’accountability si distingue in due modalità: orizzontale, quando il controllo viene esercitato da alcune istituzioni pubbliche che controllano altri poteri; verticale, quando sono i cittadini o le organizzazioni della società civile a vigilare sui poteri pubblici10. Forse l’accountability è proprio l’elemento patognomonico della democrazia perché non è prevista né prevedibile né trapiantabile in nessun altro tipo di regime.
Ma, oggi, il problema delle democrazie liberali è proprio questo: i tradizionali meccanismi di controllo verticale ed orizzontale sono inadeguati in un contesto, quello della globalizzazione, nel quale il potere decisionale è traslato definitivamente dal livello politico a quello economico-finanziario. Con il risultato che oggi chi decide la sorte di milioni di persone, di fatto non risponde a nessuno se non a sé stesso. Questo è accaduto perché la poliarchia economico-finanziaria è costituita da gruppi che possono muoversi su una scala mondiale ed agiscono fondamentalmente nella stessa direzione condividendo i medesimi interessi. Al contrario il livello politico è costituito da poliarchie che operano su scala locale (o al massimo sovraregionale), perseguono interessi diversi e quindi praticano politiche differenti. Il risorgere degli Stati-nazione come conseguenza del deterioramento della cooperazione internazionale e dell’allentamento dei vincoli comunitari in Europa, non può che peggiorare la situazione. Gli Stati dovranno fronteggiare isolatamente, e quindi in posizione di debolezza, le condizioni poste dalle lobbies economico-finanziarie internazionali. Facile prevedere il vincitore di questa negoziazione e le conseguenze sui cittadini (dalla limitazione dei diritti sociali alle basse remunerazioni salariali).
Però anche nel corso della crisi attuale è emerso qualche segnale positivo per la democrazia. I meccanismi dell’accountability verticale possono essere rinforzati ed adeguati: in Islanda la classe politica che ha portato il Paese al default è stata spazzata via politicamente già da anni ed oltretutto è stata messa sotto processo (l’ex ministro delle Finanze è stato condannato a due anni di carcere). Inoltre, anche in un contesto così sfavorevole quale è la globalizzazione, è possibile attivare alcuni meccanismi dell’accountability orizzontale. Per l’incidente nel Golfo del Messico (2010), Obama ha portato sul banco degli accusati la British Petroleum ottenendo due condanne, una per la morte provocata di undici persone (con un risarcimento di 4,5 miliardi di dollari), l’altra per disastro ecologico (con un risarcimento di 19,5 miliardi di dollari). Ma le iniziative estemporanee di questo o quel governo non possono bastare. E’ necessaria una politica di sistema, condivisa a livello internazionale, per mettere a punti i meccanismi dell’accountability verticale ed istituire quelli dell’accountability orizzontale. Di qui la necessità di una Europa unita e di una sua maggiore integrazione con gli Stati Uniti.
CDL, 1 Novembre 2016
Didascalie immagini
Figura 1. Cesare Maccari (1840-1919), Cicerone pronuncia in Senato l’orazione contro Catilina. Affresco (400 x 900 cm) realizzato nella sala Maccari di Palazzo Madama a Roma ed eseguito nel periodo 1881-1888. Immagine tratta da Wikipedia.
Figura 2. Rembrandt (1606-1669), Sindaci della corporazione dei mercanti di tessuti ad Amsterdam. Dipinto olio su tela del 1662 (191 x 279 cm). I sindaci, eletti dalla corporazione ed in carica per la durata di un anno, valutavano la qualità delle stoffe offerte dai tessitori ai mercanti. La gilda dei drappieri era forse la corporazione più potente di quella che fu la Repubblica delle Sette Province Unite, di fatto governata per secoli da un’oligarchia di mercanti (dal 1581 al 1795). Attualmente il dipinto è custodito nel Rijksmuseum di Amsterdam dal cui sito web è tratta l’immagine.
Figura 3. Joseph Keppler (1838-1894), I Boss del Senato. Vignetta del 1889 pubblicata su Puck. Il titolo è posto in basso. Raffigura le grandi concentrazioni monopolistiche (acciaio, rame, petrolio, ferro, zucchero, stagno, carbone, ecc.) che come enormi sacchi di denaro incombono su minuscoli senatori. L’ingresso alle persone comuni è sbarrato ed infatti la galleria riservata al pubblico è vuota. Spalancato invece il portone per l’ingresso dei monopolisti direttamente nell’aula del Senato. Il motto posto in alto recita: “”Questo è il Senato dei monopolisti fatto dai monopolisti per i monopolisti!”. La vignetta vuole rappresentare la crescita dell’industria americana in quegli anni, enorme ma caratterizzata da una preoccupante tendenza alla concentrazione sino alla configurazione di veri e propri monopoli. Quella delle concentrazioni industriali era un problema molto sentito e la sua diffusa percezione, di cui la vignetta è espressione, contribuì a far approvare lo Sherman Anti-Trust Act (1890), il primo atto legislativo antitrust della storia delle democrazie liberali. Immagine tratta dal sito del senato americano (www.senate.gov).
Bibliografia
1. Eugenio Scalfari. Zagreblesky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto. La Repubblica, 2 Ottobre 2016.
2. Eugenio Scalfari. In democrazia sono pochi al volante e molti i passeggeri. La Repubblica, 9 Ottobre 2016.
3. Per una rassegna dettagliata della teoria delle élites si veda: Giorgio Sola. Teoria delle élites. Enciclopedia delle scienze sociali Treccani, 1993.
4. Nadia Urbinati. Potere concentrato e potere diffuso. La Repubblica, 4 Ottobre 2016.
5. Gustavo Zagrebelsky. Tempo di oligarchie e di chiarimenti. La Repubblica, 12 Ottobre 2016.
6. Si veda in proposito: Nadia Urbinati. Mazzini and the making of the republican ideology. In: Journal of Modern Italian Studies, Special Issue: The transformation of republicanism in modern and contemporary Italy, Volume 17, Issue 2, pp 183-204, 2012 http://dx.doi.org/10.1080/1354571X.2012.641412.
7. Sulla positività del conflitto si Machiavelli si veda: Democrazia Pura. Repubblicanesimo come prospettiva. L’accountability anglosassone. In: Attualità del repubblicanesimo, 20 Gennaio 2013.
8. Eugenio Scalfari. Perché difendo l’oligarchia. La Repubblica, 13 ottobre 2016.
9. Chrostofer Williams. Leadership accountability in a globalizing world. Palgrave McMillan, New York, 2006.
10. Rick Stapenhurst, Mitchel O’Brien on behalf of The World Bank. Accountability in governance.