Il termine di democrazia illiberale è entrato nella consuetudine per indicare un sistema politico formalmente rappresentativo ma nel quale non vengono pienamente rispettati i diritti civili.
Liberalismi non democratici
In un recente passato sono falliti i tentativi di introdurre elementi di liberalismo all’interno di regimi autocratici. In Cina, la liberalizzazione dei rapporti economici ed il parziale riconoscimento dei diritti privati produsse nella società civile una domanda di democratizzazione del sistema che nel 1989 fu repressa nel sangue. Anche in Unione Sovietica e Sudafrica, Michail Gorbačëv e Pieter Willem Botha puntarono a riformare sistemi assolutistici attraverso il parziale riconoscimento delle libertà civili ma poco o nulla volendo concedere sotto il profilo dei diritti politici. Anche in questi due casi il tentativo non ebbe successo sebbene l’epilogo sia stato diverso da quello cinese perché i regimi ne uscirono travolti (l’Unione Sovietica nel 1991, il Sudafrica nel 1994). Queste esperienze sembrarono confermare l’assunto che liberalismo e democrazia non potevano che sostenersi a vicenda: inevitabilmente il riconoscimento anche parziale dei diritti individuali porterebbe con sé il dissenso politico che se non recepito attraverso i canali della democrazia rappresentativa condiziona tensioni insopportabili per la stabilità del sistema.
Liberalismo e democrazia
Nel passato liberalismo e democrazia avevano viaggiato a lungo separati. Infatti, per quasi due secoli, sono esistiti Stati liberali non democratici e Stati democratici non liberali. Così, nell’Ottocento, gli Stati nazionali liberali riconoscevano ai propri cittadini i diritti fondamentali ma non quelli politici (suffragio ristretto) e non riconoscevano alcun diritto agli altri popoli (da cui il colonialismo e l’imperialismo). Nel Novecento il nazismo ed il fascismo salirono al potere con metodo democratico, ottenendo la maggioranza dei consensi elettorali, per poi istituire regimi totalitari. L’avvento del comunismo inoltre ha significato la nascita di Stati che si costituivano come democrazie egualitarie (nell’accezione sostanziale dell’uguaglianza dei beni) ma che non ammettevano libertà civili e politiche (se non su un piano meramente formale e svuotato di reali contenuti). L’evoluzione degli Stati liberali in senso democratico, la sconfitta del totalitarismo nazifascista, e, successivamente, il fallimento del comunismo hanno indotto a ritenere che ormai non potessero più esistere Stati liberali ma non democratici e Stati democratici ma non liberali1. Questo paradigma deve forse essere rivisto alla luce di quanto accaduto negli ultimi decenni. Certo sono falliti i tentativi dei liberalismi non democratici ma già da tempo va emergendo un fenomeno per certi versi opposto, quello delle democrazie illiberali, che è il risultato di un processo di lungo corso sebbene il suo profilo stia diventando netto e riconoscibile solo di recente.
Democrazia illiberale
I regimi autocratici e le democrazie liberali di recente istituzione (limitatamente ad alcuni aspetti persino quelle già consolidate da tempo) stanno subendo trasformazioni verso forme di democrazia elettorale nelle quali la limitazione delle libertà civili è sostenuta da un consenso ottenuto attraverso elezioni generali formalmente libere.
Tuttavia è proprio il processo di formazione del consenso elettorale ad essere fortemente discutibile. L’attuazione di una democrazia illiberale prevede, infatti, il mantenimento di un suffragio universale svuotato di reali contenuti politici. Come acutamente osservato da Cesare Pinelli ai fini della istituzione di una democrazia illiberale “sarà essenziale il controllo dei media, al fine di bloccare processi di apprendimento alternativi a quelli imposti dall’alto. La proprietà privata potrà essere ammessa, purché concentrata in qualche gruppo monopolistico legato al governo. E la politica estera sarà ispirata a un aggressivo nazionalismo, in modo da mobilitare continuamente l’opinione pubblica contro il nemico esterno di turno. Una volta riunite queste condizioni, una credibile opposizione politica stenterà a formarsi”2. Dunque, anche nel caso delle democrazie illiberali, come già per i liberalismi non democratici, l’aspetto decisivo è il rispetto sostanziale dei diritti politici e quindi la piena agibilità dei meccanismi dell’accountability (si veda dopo).
Ma come nascono queste forme di governo? A partire dagli anni ’80 del Novecento, le democrazie liberali sono state sottoposte ad una forte tensione dall’avvento di una nuova filosofia, la deregulation economica, imposta al mondo da Reagan e dalla Tatcher. Essa scaturiva come risposta neoliberista alla depressione economica e alla conseguente crisi del Welfare. Il modello di stato sociale, che si era diffuso nel secondo dopoguerra sia negli USA che in Europa, entra crisi con la crisi petrolifera del 1973. A partire da quell’evento la crescita economica subirà un rallentamento sempre più marcato che comprimerà la spesa pubblica sino a rendere insostenibile il modello di assistenza sociale che era stato sviluppato. Per questa ragione torna in auge il paradigma dello Stato minimo da cui scaturisce una politica di deregulation dell’economia caratterizzata da regole ridotte al minimo e dal progressivo ridimensionamento dell’intervento dello Stato.
La politica di Reagan e Tatcher non era affatto improvvisata ma rappresentava il risultato politico di un lungo processo culturale che ebbe inizio nel dopoguerra con la fondazione di think tank neo-liberisti3. Tra questi particolarmente rilevante risulterà la Mont Pélerin Society (Mps), fondata nel 1947 da Friedrich von Hayek che chiamerà a parteciparvi una parte importante dell’intellighenzia liberale e liberista: Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl R. Popper, Luigi Einaudi ed altri ancora. La liberalizzazione dei movimenti di capitale, la capacità del mercato di allocare le risorse in modo efficiente e di produrre utilità sociale, la necessità di limitare al minimo il ruolo dello Stato erano i temi sviluppati.
La Mps non si struttura come organizzazione politica né come lobby di pressione ma diventa una efficace scuola di pensiero che nel corso degli anni riuscirà a sviluppare un’egemonia intellettuale pressoché totalizzante sulla politica e l’economia del mondo intero. Molti dei consiglieri di Reagan si era formati nella Mps, di cui era filiazione diretta l’Institute of Economic Affairs che fungeva da riferimento per la Tatcher.
Con questo non si intende affatto sostenere la tesi di un complotto neoliberista ai danni del mondo. Si vuole invece affermare che di fronte alla depressione che seguì lo shock petrolifero, la cultura liberale aveva maturato una risposta di tipo neo-liberista mentre quella democratica si trovava a fare riferimento ad un approccio keynesiano non aggiornato e quindi non utilizzabile in quel frangente. La cultura socialista non trovò niente di meglio che riproporre una soluzione, la socializzazione dei mezzi di produzione attraverso l’autogestione, che apparve da subito improvvisata e poco plausibile4.
Nel corso degli anni la deregulation ha determinato una profonda ristrutturazione economica e sociale e una torsione del sistema politico verso forme sempre meno rappresentative della volontà dei cittadini. La globalizzazione, inoltre, ha fatto sì che questa tendenza da un lato si estendesse alle nazioni che sorgevano dal crollo del comunismo e dall’altro si imponesse anche nei Paesi che uscivano da uno stato di arretratezza economica e autoritarismo politico, compresi quelli dell’America latina nei quali la scarsa rappresentatività politica è talora mascherata dal populismo. Un caso particolare, si è visto, è rappresentato dalla Cina il cui passaggio da un economia ingessata alla deregulation capitalistica è avvenuta senza mutazioni apparenti del sistema politico.
La libertà nel mondo
L’organizzazione non governativa “Freedom House”5, fondata negli USA nel 1941, da diversi anni pubblica un rapporto sullo stato della libertà nel mondo. Nell’anno 2014 ha valutato il grado di libertà di 194 Paesi e 15 territori utilizzando due scale, l’una riferita ai diritti politici e l’altra alle libertà civili, costruite su un totale da 25 indicatori6. L’approccio metodologico è basato sull’assunzione che la libertà sia meglio garantita dai principi della democrazia liberale. I dieci indicatori che misurano i diritti politici si riferiscono al meccanismo elettorale (suffragio universale, regolarità delle procedure), pluralismo e partecipazione (presenza di partiti organizzati, accesso alle elezioni delle forze di opposizione e delle minoranze, scelte elettorali non condizionate da alcuna autorità politica, economica, religiosa), attività governativa (governo libero da condizionamenti, non coinvolto in corruzione pervasiva, responsabile di fronte all’elettorato). I quindici indicatori che testano i diritti civili riguardano la libertà di espressione e di religione (media indipendenti, sistema educativo non condizionato da indottrinamenti, possibilità di discussione pubblica e privata), la libertà di associazione (dimostrazioni pubbliche, organizzazioni non governative, sindacati), l’autonomia del potere giudiziario ed inquirente (magistratura indipendente e libera da condizionamenti politici e criminali, controllo democratico delle forze di polizia, meccanismi di coercizione, eguaglianza di trattamento), i diritti individuali (libertà di residenza e di impiego, accesso al sistema educativo, diritto di proprietà e libertà di commercio, condizionamenti criminali, uguaglianza di genere, pari opportunità, sfruttamento economico). Ciascun indicatore viene misurato attraverso un punteggio (ad esempio la democraticità del processo elettorale può variare da 0 a 12). La somma dei punteggi dei dieci indicatori dei diritti politici e delle quindici misure delle libertà civili viene categorizzata in una scala che va da 1 (per il punteggio più elevato) a 7 (per il punteggio più basso). La media delle due scale definisce il grado di libertà: stato libero (media da 0 a 2,5), parzialmente libero (3,0-5,0), non libero (5,5-7,0).
Il risultato dell’indagine condotta nell’anno 2014 è rappresentato nella figura7. L’Italia ha oggi il punteggio migliore (pari ad 1) sia per i diritti politici che per quelli civili ma in un recente passato, pur collocandosi sempre tra i Paesi liberi, ha avuto per diversi anni la media di 1,5. L’ultima volta è accaduto nel 2013 e prima ancora nel triennio 2009-2011. La Russia oggi è considerata un paese non libero totalizzando un valore pari a 6 sia nell’ambito dei diritti politici che in quello delle libertà civili. Inoltre, nel corso del tempo, ha visto deteriorarsi progressivamente il tessuto democratico, così come esso viene rilevato con i criteri della Freedom House, passando dal punteggio di 3,5 del 1995 al 6 attuale a seguito di un crescente controllo sui media, di una propaganda sempre più invasiva della televisione di stato, dell’introduzione di restrizioni di movimento per i cittadini.
La questione russa è importante perché oggi l’autoritarismo illiberale di Putin rappresenta il modello prevalente del neo-populismo europeo, i cui elementi fondamentali sono “il nazionalismo, la religione, il conservatorismo sociale, il capitalismo di stato e il controllo assoluto governativo dei media”8. Nel marzo 2013, su iniziativa di Orban, il parlamento ungherese ha approvato una serie di misure restrittive tra le quali la limitazione della libertà di espressione, la criminalizzazione dei senzatetto, il divieto all’emigrazione per i laureati da meno di dieci anni. Contestualmente venivano messi in discussione alcuni degli elementi costitutivi delle democrazie liberali e segnatamente la separazione dei poteri e il controllo sulla costituzionalità delle leggi9. Ad oggi l’Ungheria ha un punteggio medio pari a 2 ma con un trend verso il peggioramento. Analogo percorso stanno compiendo la Turchia (3,5) e l’India (2,5). Per non parlare della Cina (6,5) che per molti aspetti ha preceduto il modello putiniano. Persino in Polonia, dove pure persiste un sentimento antirusso viscerale, la destra nazionalista di Jaroslaw Kaczynski che ha vinto le politiche del 25 Ottobre scorso, promette di realizzare una democrazia elettorale che ricorda da vicino il plebiscitarismo putiniano.
Democrazia ed accountability
La classificazione proposta da Freedom House registra quanto accade nel mondo ma non può cogliere le inquietudini illiberali che serpeggiano nel cuore stesso dell’Europa e che a breve rischiano di diventare nuove realtà politiche. Il plebiscitarismo putiniano rappresenta l’esplicito riferimento di alcuni dei più importanti movimenti neopopulisti europei come il Fronte Nazionale della Le Pen e la Lega di Salvini. Ed una forma di democrazia illiberale è fondamentalmente perseguita da tutti i neopopulismi di destra che in Europa stanno ampliando sempre più i propri consensi modificando sostanzialmente l’equilibrio politico continentale10. Ma c’è ancora di più. Anche nelle democrazie liberali più consolidate e ancora governate da partiti non populisti vanno emergendo elementi di illiberalità legati al forte indebolimento dei meccanismi dell’accountability verticale e di quella orizzontale.
L’accountability, solitamente tradotta in italiano con il termine di responsabilità, nella cultura anglo-sassone assume l’accezione più ampia (politica e giuridica) del “dover render conto agli altri del proprio operato”. Due gli elementi costitutivi: l’obbligo di rispondere da parte di chi prende le decisioni (answerability) e la possibilità di sanzionare una violazione da parte degli organismi di garanzia (enforcement). Sulla base dei meccanismi di vigilanza, l’accountability viene distinta in orizzontale, quando un’istituzione viene controllata da un’altra, e verticale, quando un potere risponde ai cittadini e alle organizzazioni della società civile11. Già nel 1998 il filosofo argentino Guillermo O’Donnell osservava che in quelle che erano allora le “nuove democrazie” (alcuni Paesi dell’America latina, del sud-est asiatico, dell’Europa orientale e colossi mondiali come l’India) i criteri dell’accountability verticale erano rispettati su un piano formale per il fatto che si svolgevano libere elezioni12. Ma, aggiungeva, nelle medesime democrazie l’accountability orizzontale risultava incerta o intermittente. Egli riferiva questa debolezza ad un deficit di cultura liberale (riguardante i diritti) e repubblicana (inerente i doveri) che condizionava insufficienza ed inadeguatezza nei meccanismi di controllo che caratterizzano l’accountability verticale e quella orizzontale.
Alle originali osservazioni di O’Donnell, si potrebbe aggiungere che la deregulation e la globalizzazione hanno oggi raggiunto la massima espressività ponendo seri problemi di accountability orizzontale alle stesse democrazie liberali. I grandi gruppi economico-finanziari che governano oggi il mondo non solo non rispondono ai milioni di cittadini di cui pure decidono le sorti, ma sono esenti anche da ogni sorta di vigilanza orizzontale. Mentre essi infatti, pur essendo una poliarchia composita, costituiscono un potere reso omogeneo dal comune interesse ed agiscono in maniera coerente su scala mondiale, i governi, quando non assoggettati, si muovono in una dimensione locale, al massimo sovraregionale, e comunque in modo non coordinato se non espressamente contraddittorio. E’ cosi che il combinato disposto della deregulation e della globalizzazione sta realizzando nuove forme di schiavitù nei Paesi emergenti ma anche nuove forme di servitù nelle democrazie liberali.
Il risorgere degli Stati-Nazione
L’indebolimento dell’accountability verticale e l’assenza di meccanismi condivisi di vigilanza orizzontale da un lato rafforzano il potere esecutivo di ciascun Paese nei confronti della propria società civile e dall’altra lo isolano nel contesto internazionale favorendo il ritorno di un sistema di relazioni di tipo westfaliano perché basato sugli Stati-Nazione.
Massimo Cacciari, commentando la vicenda greca, nega che in essa possa ravvisarsi la volontà di potenza della Germania cui invece attribuisce una mancanza di auctoritas che l’ha condotta ad esaltare una stabilità intransigente, economica e quindi politica, da cui non può scaturire nessuna strategia di dominio perché compromette inesorabilmente la sua capacità di attrazione13. Sempre a proposito della vicenda greca, Jürgen Habermas ritiene che la Germania abbia tradito la vocazione post-nazionalista pazientemente costruita negli ultimi decenni. Habermas è il capofila intellettuale di una sinistra liberale tedesca che nel secondo dopoguerra scelse deliberatamente di rompere con la tradizione nazionale basata sulla centralità etnico-culturale della Germania. Questa tradizione, nata nella seconda metà dell’Ottocento in versione conservatrice-liberale, fu considerata come la lunga incubazione del nazismo. Partendo da questa analisi, la gran parte dell’intellighenzia tedesca si è dedicata per tutto il secondo dopoguerra alla costruzione di un nuovo paradigma, quello della Germania come potenza civile portatrice dei valori della democrazia e del benessere economico14. Il protettorato imposto alla Grecia, secondo Habermas ha dissolto in un solo colpo questo patrimonio15.
E se la Germania tende a ripiegare su se stessa, sono a rischio anche la Francia e la Gran Bretagna sotto la spinta prorompente dei rispettivi movimenti nazionalisti. Per non parlare poi di Ungheria e Polonia, oggi guidate da governi tendenzialmente autoritari dalle forti venature anti-europee. Completano il panorama la Russia e la Turchia, Paesi con i quali l’Europa ha contatti stretti, già da tempo avviate lungo la strada della democrazia illiberale e nazionalista.
Un ulteriore fattore che favorisce le tendenze illiberali è costituito dall’attacco cui sono sottoposte le democrazia liberali da parte del terrorismo islamico. Già il Patriot Act, approvato negli USA all’indomani dell’attentato dello 11 Settembre 2001 e prorogato da Obama nel 2011 per ulteriori quattro anni, è stato criticato dagli ambienti liberal americani per la restrizione delle libertà civili che esso può determinare. Ma su questa stessa strada si sono incamminati altri Paesi, sia quelli già in fase di involuzione illiberale (Russi e Turchia), sia alcune delle democrazia liberali avanzate (Spagna e Germania). Dopo i recenti attentati di Parigi, lo stesso Hollande ha proposto modifiche costituzionali sulla dichiarazione dello stato di urgenza. In varia misura la legislazione antiterroristica rafforza il potere inquirente dei corpi di polizia, dei servizi segreti, della magistratura e rischia di limitare la libertà di movimento dei cittadini, la privacy, il diritto di espressione per lunghi periodi di tempo e non solo limitatamente alle fasi di emergenza.
In sostanza, oggi i mostri antichi tendono a tornare sottoforma di incubi moderni. La vicenda greca ha segnato il declino forse definitivo dell’idea dell’integrazione europea e la rinascita prepotente degli Stati-Nazione nei quali, a ben vedere, si scorge l’ombra sinistra del Leviatano di Hobbes16. Gli Stati-nazione rischiano di essere tanto deboli nel fronteggiare la globalizzazione quanto aggressivi l’uno verso l’altro ed autoritari nei confronti della propria società civile.
Solo una politica comune può salvare le economie degli Stati europei. In primo luogo è ineludibile la promozione di meccanismi dell’accountability orizzontale attraverso i quali i governi possano congiuntamente condizionare il potere economico-finanziario. Sotto questo profilo il trattato TTIP (Partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti), così come esso sembra prendere forma, rappresenta più un rischio che un’opportunità. La creazione di una grande unico mercato tra Stati Uniti ed Europa nel quale le forze economico-finanziarie sono sottratte all’osservanza delle normative nazionali, in assenza di una legislazione comune in materia rischia di essere un lasciapassare per non rispettare nessuno standard di sicurezza e qualità.
In secondo luogo occorre migliorare l’efficienza del controllo verticale nella relazione cittadini-governi. In particolare attraverso la rimozione dell’asimmetria informativa relativa al fatto che il delegato (il governo) ed i delegante (i cittadini) non hanno lo stesso accesso alle informazioni necessarie. Solo a questo punto i due percorsi possono saldarsi in una sorta di accountability diagonale a mezzo della quale i cittadini riescono ad esercitare un controllo reale sulle istituzioni finanziarie e le forze economiche. Ma, affinché i due percorsi possano realmente funzionare risulta decisiva la possibilità e la capacità di sanzionare i comportamenti non corretti, come accaduto nel caso Islanda, dove la classe politica che ha portato il Paese al default è sotto processo e l’ex ministro delle Finanze è già stato condannato a due anni di carcere.
Il futuro o sarà così oppure prevarranno i processi di quella che Ilvo Diamanti ha definito la contro democrazia17: i partiti di opposizione tenderanno al populismo, la magistratura ad assumere carattere pervasivo, il giornalismo ad essere asservito o investito di funzioni improprie. Ed il risultato sarà la democrazia illiberale.
CDL, Tivoli, 1 Dicembre 2015
1. Norberto Bobbio. Liberalismo e democrazia. Milano, Simonelli, 2006, p. 60.
2. Cesare Pinelli. Verso nuove forme di populismo. Atlante Geopolitico 2013. Enciclopedia Treccani on line, 2013.
3. Luciano Gallino. La lunga marcia dei neoliberali per governare il mondo. La Repubblica, 27 Luglio 2015.
4. Sulla riproposizione del modello autogestionario in opposizione al Reaganismo si veda: Luciano Pellicani. Eclissi o tramonto dell’idea socialista? Working Paper n.85, Barcelona 1994.
5. Freedom House. Home page.
6. Freedom House. Freedom in the world 2015. Methodology.
7. Freedom House. Freedom in the world 2015.
8. Fareed Zakaria. Nazionalismo e censura da Orbán a Erdogan così il “putinismo” si diffonde in Europa. La Repubblica, 5 Agosto 2014.
9. Nadia Urbinati. La democrazia illiberale che contagia l’Europa. La Repubblica 6 Agosto 2014.
10. Per una panoramica del populismo europeo di destra si veda: Democrazia Pura. Atlante del populismo europeo. 1 Settembre 2015.
11. Rick Stapenhurst, Mitchel O’Brien on behalf of The World Bank. Accountability in governance.
12. Guillermo A. O’Donnell. Horizontal Accountability in New Democracies. Journal of Democracy 9.3 (1998) 112-126.
13. Massimo Cacciari. Germania gigante d’Europa senza auctoritas. La Repubblica, 21 Luglio 2015.
14. Simone Sauza. Europa ed identità tedesca. Storia di una crisi. Linkiesta, 1 Settembre 2015.
15. Philip Oltermann. Jürgen Habermas: “L’egemonia di Berlino contro l’anima dell’Europa”. La Repubblica, 18 Luglio 2015.
16. Roberto Esposito. Leviatano 2.0 – Così ritorna lo Stato sovrano. La Repubblica, 20 Luglio 2015.
17. Ilvo Diamanti. Mappe. La contro democrazia. La Repubblica, 3 Novembre 2015.