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La rivoluzione francese può essere considerata un momento cruciale della storia del pensiero durante il quale il repubblicanesimo si definisce ulteriormente nella pratica rivoluzionaria ed il liberalismo nasce per differenziazione.
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Nell’ambito della storiografia del repubblicanesimo, Maurizio Viroli è stato il primo ad allargare l’orizzonte oltre la guerra di indipendenza americana per includere nella tradizione repubblicana sia la rivoluzione francese che la democrazia radicale italiana1. Gli altri storici delle idee cui si deve l’individuazione e la specificazione del filone storiografico del repubblicanesimo, e segnatamente John G. A. Pocock2, Philipp Pettit3 e Quentin Skinner4, avevano infatti ricostruito un percorso che dalla Polis greca e dalla Res Publica romana, attraverso la rielaborazione originale di Machiavelli, arrivava alla guerra civile inglese e, per il tramite della cultura britannica, giungeva infine alla rivoluzione americana.
E la rivoluzione francese come si colloca rispetto al repubblicanesimo? Un dilemma storiografico. Per lungo tempo essa è stata considerata un evento di portata tanto eccezionale da resettare l’intero pensiero politico ma frutto di una cultura e di eventi in qualche modo contingenti e comunque genuinamente francesi. Tuttavia, dopo l’individuazione del repubblicanesimo come tradizione ideale autonoma, si è cominciato a rileggere anche la vicenda francese alla luce del nuovo paradigma. Peraltro con un certo ritardo che è stato motivo di polemica tra storici anglosassoni e francesi5.
Definizione del repubblicanesimo
Per inquadrare correttamente la rivoluzione francese all’interno del paradigma repubblicano, converrà innanzitutto identificare la tradizione ideale repubblicana con criteri di minima. E questo allo scopo di fare chiarezza in un dibattito che per molti aspetti è diventato confuso. In linea generale la discussione è centrata su un aspetto: il repubblicanesimo come corpus unitario di teorie o come linguaggio apparentemente omogeneo che cela in realtà riflessioni filosofiche e politiche anche molto diverse.
A giudizio dell’autore quello che oggi è definito come repubblicanesimo è costituito da un complesso di teorie che non essendo state strutturate in forma dogmatica si sono potute sviluppare nel corso del tempo assumendo connotazioni anche diverse ma conservando tuttavia un filo di continuità e quindi una sostanziale coerenza. Il denominatore comune è rappresentato da un’idea di libertà che trova la sua naturale espressività istituzionale nella forma repubblicana.
Un’idea che secondo alcuni autori, e segnatamente J.G.A. Pocock, è genuinamente positiva perché si sostanzia nell’autodeterminazione del cittadino all’interno della propria comunità. A questa tradizione appartengono lo zoon politikon della Polis aristotelica, la virtù civica della Res Publica romana, la vita activa di Machiavelli, la coscienza civile dei rivoluzionari inglese, il patriottismo rivoluzionario americano. Si potrebbe completare l’elenco aggiungendo il dovere civile di Mazzini ed il patriottismo che caratterizzerà tanta parte della democrazia radicale europea dell’Ottocento.
Altri autori, ed in particolare P. Pettit e Q. Skinner, con una differenza di toni che non compromette la sostanziale unitarietà della riflessione, individuano la peculiarità del repubblicanesimo in una particolare forma negativa di libertà che risulta profondamente diversa dalla semplice non interferenza liberale perché viene intesa in senso così estensivo da diventare “assenza di dominio” o “assenza di dipendenza”. Perché l’uomo sia veramente libero non basta che sia esente da interferenze ma è necessario che si trovi in una condizione tale da non poter patire forme di dipendenza (non solo attuali ma anche solo potenziali) perché i suoi diritti sono garantiti dalla legge. In tutta evidenza una concezione di questo tipo contiene implicita l’idea dell’emancipazione da ogni forma di servitù politica, sociale, economica.
Nella storiografia contemporanea repubblicanesimo positivo e negativo vengono definiti anche, rispettivamente, classico (o degli antichi) e moderno. In realtà una distinzione netta tra l’accezione positiva e quella negativa della libertà non è riscontrabile nella maggior parte dei pensatori repubblicani. Infatti la due concezioni non sono obbligatoriamente antinomiche ma trovano una composizione nell’utilizzo in successione anziché in parallelo. Paradigmatico in proposito è il programma politico di Mazzini, caratterizzato da una scala di priorità (unità della patria, indipendenza della nazione, emancipazione sociale) nelle quali si riconoscono chiaramente gli elementi della libertà positiva (la patria come comunità necessaria all’esercizio della libertà e all’autodeterminazione dell’uomo) e quelli della libertà negativa (l’indipendenza nazionale e l’emancipazione sociale come liberazione da ogni forma di dominio) 6. In tutta evidenza una tale idea di libertà sfugge alla classificazione tradizionale di Isahiah Berlin che oppone la forma positiva o comunitaria a quella negativa o liberale creando la ormai celebre diade oppositiva “Libertà di” vs “Libertà da” 7.
Converrà accennare anche al fatto che l’idea di libertà repubblicana nel corso del tempo incontra quella dell’uguaglianza, dapprima con Machiavelli limitata agli aspetti politici, poi con Harrington estesa all’ambito economico, infine con la rivoluzione americana affermata sul piano costituzionale8. In ultimo occorre precisare che le diverse famiglie repubblicane si distinguono per il diverso valore attribuito al tema del conflitto che con Machiavelli diventa la spinta verso un ordine istituzionale sempre più evoluto e sempre più rappresentativo della complessità sociale9, 10. Altri pensatori repubblicani tuttavia tendono ad interpretare il conflitto come elemento di confusione e corruzione che espone al rischio autoritario. Tra questi, in particolare James Harrington, la cui riflessione teorica risulta fortemente influenzata dall’orrore provato per la violenza che sconvolse la Gran Bretagna nel corso della rivoluzione11. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, i pensatori repubblicani accettarono la necessità del conflitto12.
In sostanza, se si vuole giudicare la rivoluzione francese alla luce del paradigma repubblicano occorre confrontare le vicenda storiche, il pensiero e le azioni degli uomini rispetto ad una concezione della libertà complessa (in parte positiva, in parte negativa ma comunque diversa dalla non interferenza liberale), che aveva già recepito sul piano teorico il concetto di uguaglianza e che, almeno nell’elaborazione della maggior parte degli autori, contiene implicitamente l’idea della positività del conflitto.
Rivoluzione ed egualitarismo
La rivoluzione francese non fu solo una prorompente affermazione di libertà ma rappresentò anche, per la prima volta sul piano della pratica politica, una veemente rivendicazione di uguaglianza. Si è detto che il repubblicanesimo aveva già incontrato l’idea di uguaglianza con Machiavelli, Harrington e la guerra di indipendenza americana. In particolare in Harrington l’elaborazione teorica aveva investito l’ambito economico ed era giunta sino a prefigurare una forma controllata di distribuzione dei beni. La rivoluzione francese rappresenta un passo ulteriore per una duplice ragione: innanzitutto l’uguaglianza esce dalla discussione teorica per divenire istanza politica concreta; in secondo luogo essa si estende dichiaratamente dal campo dei diritti a quello della proprietà.
In proposito Thomas Casadei, nel ripercorrere lo sviluppo dell’idea di uguaglianza, ha sostenuto: “Il punto di svolta nel cambio di paradigma è emblematicamente collocabile nella Rivoluzione francese. In un primo momento, i rivoluzionari rivendicano soltanto l’uguaglianza di fronte alla legge, sintetizzando in un solo principio istanze che scaturivano dalle radici della tradizione filosofica occidentale. Eguaglianza dei diritti, ma non eguaglianza in tutto, perché le differenze di proprietà non vengono messe in discussione. In un secondo momento, l’ala giacobina dei rivoluzionari assume un atteggiamento differente e l’orizzonte di applicazione della nozione di uguaglianza si allarga ad aree prima inavvicinabili, investendo la nozione stessa di proprietà…”13.
Da questo punto di vista è esemplare il discorso tenuto da Robespierre alla Convenzione il 24 Aprile 1793. Nel tentativo di riformare in senso egualitario la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata nel 1789 egli dichiarava: “Nel definire la libertà il primo dei beni dell’uomo, il più sacro dei diritti che derivano dalla natura, avete detto con ragione che essa aveva per limite il diritto degli altri. E perché mai, allora, non avete applicato questo principio alla proprietà, che è un’istituzione sociale” 14. Procedeva poi ad esporre l’idea di un’imposizione progressiva che consentisse una redistribuzione del reddito preoccupandosi di precisare l’esenzione per i cittadini i cui redditi non superassero il necessario alla sussistenza. Nella proposta di Robespierre, l’articolo 8 della Dichiarazione avrebbe dovuto recitare: “Il diritto di proprietà è limitato, come tutti gli altri, dall’obbligo di rispettare i diritti altrui”. La proposta di Robespierre sembra riecheggiare le idee di Thomas Paine sulla tassazione progressiva e la povertà15. Tuttavia essa costituisce un momento importante non per la originalità del contenuto ma per il fatto che traduce in istanza politica concreta un’idea di uguaglianza che investe anche il diritto di proprietà. E Robespierre era in quel momento il protagonista indiscusso di una fase decisiva della rivoluzione. Il suo tentativo comunque non avrà successo e la Dichiarazione approvata nel giugno 1793 dalla Convenzione, pure a maggioranza giacobina, non accoglierà né questa né altre sue proposte.
L’introduzione nella pratica politica della istanza egualitaria nella sua accezione più ampia pone la questione delle radici culturali della grande rivoluzione sulla quale converrà soffermarsi brevemente. Non c’è dubbio, credo, che la rivoluzione francese sia un prodotto originale, autoctono, autenticamente francese e che rappresenti la prosecuzione con altri mezzi della cultura illuministica. Sarebbe però ingenuo ritenere che la riflessione illuministica possa essere sorta dal nulla senza risentire delle teorie passate e di quelle contemporanee dibattute in altri parti del mondo. In questa sede interessa solo sottolineare il filo che lega il repubblicanesimo britannico all’illuminismo francese attraverso percorsi che sono stati individuati con precisione. In particolare è documentato che Diderot e Rousseau conoscessero minuziosamente, al punto da trascriverne e tradurne gli scritti16, il pensiero di Algernon Sydney e di Anthony Asley Cooper conte di Shaftesbury, due dei principali pensatori del repubblicanesimo britannico17. Anzi, proprio la riflessione critica su questa tradizione avrebbe condotto Rousseau a tentare di coniugare il concetto di virtù e la tradizione repubblicana classica con il giusnaturalismo laico ed il contrattualismo moderno (ma in quale misura e attraverso quali meccanismi questo avvenga esula dagli scopi della presente trattazione).
Il contributo egualitario al fenomeno rivoluzionario da parte della cultura illuminista è da ricercare in particolare nell’influenza che ebbero il pensiero di Montesquieu e quello di Rousseau che, da questo punto di vista, sebbene diversi appaiono coerenti. Lo spirito generale della nazione evocato da Montesquieu e la volontà generale definita da Rousseau si collocano nel solco della libertà positiva che valorizza il principio dell’autodeterminazione dell’uomo all’interno della propria comunità di riferimento.
Ma sull’eguaglianza occorre intendersi. Bobbio distingueva una eguaglianza formale (dei diritti) ed una sostanziale (dei beni)18 e riteneva quest’ultima incompatibile con una qualsiasi teoria della libertà individuale. Se il concetto di uguaglianza di Montesquieu è per definizione “moderato” nel momento in cui ammette differenziazioni interne alla società, quello di Rousseau appare più radicale perché non si ritrae di fronte alla questione della proprietà. Tuttavia, faceva notare Bobbio, proprio in Rousseau ed anzi solo nella sua elaborazione teorica, l’aspetto formale e quello sostanziale dell’eguaglianza tendevano a trovare una composizione nel momento in cui si faceva dipendere l’ideale egualitario dalla volontà generale dei cittadini.
La volontà generale diventa l’interfaccia che rende compatibili la libertà e l’uguaglianza, anche sostanziale. In quella che Rousseau chiamava libertà “contrattuale” ciascun uomo rinuncia alla libertà individuale o “naturale” ed offre l’intero se stesso (compresi i propri diritti) per concorrere a formare la volontà generale ed il corpo sovrano19. Il concetto di volontà generale di Rousseau verrà più volte evocato nel corso della rivoluzione, in particolare da Saint-Just e Robespierre20, ed infine verrà esplicitamente inserito nell’art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata nel 1789 (“La Legge è l’espressione della volontà generale”). E’ dunque attraverso il canale della volontà generale di Rousseau che l’uguaglianza entra nell’immaginario rivoluzionario e nella pratica politica. D’altronde in diversi passi della Dichiarazione del 1789 è riconoscibile l’influenza di Rousseau a cominciare dall’art. 1 (“Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”). Proprio questo aspetto mostra la cesura tipicamente rousseauiana rispetto al modello di storia come progresso sostenuto dalla cultura illuminista. La storia era invece per Rousseau un continuo regresso che parte da uno stato naturale di libertà ed eguaglianza per procedere attraverso feedback negativi che corrompono l’uomo e condizionano l’emergere di una società ingiusta. Da questo punto di vista poco importa che lo stesso Rousseau precisi che lo stato di natura probabilmente non è mai esistito e che non vale come termine storico ma come sistema di misura per valutare lo stato attuale.
In conclusione la richiesta di uguaglianza che costituisce uno dei due elementi caratterizzanti la grande rivoluzione è fondamentalmente rousseauiano: assume come presupposto il paradigma dello stato di natura, entra nella pratica politica attraversa il canale della volontà generale, coinvolge per la prima volta in maniera esplicita il diritto di proprietà.
Rivoluzione e repubblicanesimo
Secondo Keith Michael Baker21 nella Francia rivoluzionaria il repubblicanesimo presenta due radici distinte. Una prima componente è costituita da quello che viene definito il repubblicanesimo moderno di Condorcet e Paine: una concezione della rappresentanza politica che include la teoria dei diritti e si esprime in una forma istituzionale propriamente repubblicana. L’altra componente, che Baker definisce come repubblicanesimo classico, comprende un’insieme di concezioni nelle quali prevale un linguaggio di opposizione alla monarchia, non sempre propriamente repubblicano sotto il profilo istituzionale, e nel quale predomina l’idea della virtù civica. Questa si traduce in una volontà popolare da affermare a tutti i costi e la cui realizzazione deve essere costantemente sorvegliata. Sostiene Baker: “La volontà generale in Rousseau è, in effetti, la rielaborazione in termini contrattualistici formali della nozione repubblicana classica di virtù civile”. E’ questo il repubblicanesimo classico di Rousseau, Montesquieu, Mably ed altri22.
Sia consentito rielaborare le categorie interpretative di Baker alla luce della premessa fatta sui diversi aspetti della libertà repubblicana. Da questo punto di vista si può affermare che nel repubblicanesimo classico domina l’elemento positivo nel momento in cui si stabilisce la sequenza che dalla virtù civica conduce alla volontà popolare e dalla libertà individuale all’autodeterminazione del popolo. Nel repubblicanesimo moderno vengono invece accentuati gli aspetti della libertà negativa nel momento in cui vengono introdotti i diritti la cui definizione implica la non esposizione a forme di dominio. Converrà tener presente questa distinzione per comprendere l’analisi compiuta da Baker. Il quale considera la fase giacobina della rivoluzione come espressione di un repubblicanesimo classico che si trasforma alla luce della tradizione culturale francese. In particolare l’idea di un progresso illimitato fornita dall’illuminismo23 sarà il substrato da cui si sviluppa il carattere messianico della rivoluzione (in Marat), l’aspetto morale e moralizzatore (in Robespierre), l’universalità della rivoluzione permanente (in Saint Just). In altri termini il Terrore esplode quando il linguaggio del repubblicanesimo classico (virtù civica, bene comune, volontà popolare) viene rielaborato alla luce di un apparato messianico diventando vigilanza continua, sospetto costante e, in ultimo, deriva dispotica. Così il Terrore divora se stesso sino all’implosione finale. Solo successivamente, con il Termidoro, la rivoluzione inizierà a rivolgersi allo strumentario del repubblicanesimo moderno.
L’analisi di Baker presenta molti aspetti di assoluto interesse sebbene alcuni passaggi siano fortemente discussi. Così, in una rassegna recente, Daniele Di Bartolomeo sottolinea che la sua tesi poggia “su una schematizzazione forzata del panorama fazionale della Rivoluzione in base alla distinzione canonica tra un repubblicanesimo degli antichi (impersonato dai Giacobini) e uno dei moderni (incarnato dai Girondini)”… “Più propriamente, si è fatto notare come tra queste alternative ne esista almeno un’altra, impersonata dai Cordiglieri, che si ispirava al repubblicanesimo primo-moderno maturato durante e a seguito della rivoluzione inglese” 24.
Si potrebbe anche aggiungere che la storia delle idee non può essere avulsa dal contesto storico che nei momenti più acuti della rivoluzione vedeva la Francia impegnata contro potenti eserciti nemici. E d’altronde bisogna sempre ricordare con Blair Worden che, sebbene gli storici amino pensare che siano le idee ad influenzare gli eventi, più spesso accade il contrario25. Con questo si intende dire che il Terrore non può essere veramente compreso senza l’emergenza drammatica che il clima di guerra, interna ed esterna, introduceva nella vicenda politica del momento. Ma questo è un altro discorso. Senza dubbio importante ed anzi decisivo ma che esula dagli scopi della trattazione presente.
La nascita per differenziazione del liberalismo
Gli studi che hanno confrontato la vicenda francese con il paradigma repubblicano hanno dunque colmato un vuoto storiografico identificando le diversità espresse dalle differenti fasi della rivoluzione. Ma questi studi hanno avuto anche il merito di proporre una tematica originale: la nascita del liberalismo per differenziazione dal repubblicanesimo. La rivoluzione francese può essere considerata un momento cruciale della storia del pensiero durante il quale il repubblicanesimo si sviluppa ulteriormente nella pratica rivoluzionaria ed il liberalismo si definisce per confronto. Infatti, è in questa fase che alcuni autori collocano il momento in cui emerge compiutamente un linguaggio politico nuovo che dopo gli eccessi del Terrore viene pensato come correttivo del repubblicanesimo e da cui scaturisce il liberalismo europeo.
Alcuni storici contemporanei, segnatamente Andreas Kalyvas, Ira Katznelson26 e Andrew Jainchill, almeno nell’analisi critica compiuta da Jean-Fabien Spitz27, sostengono che il linguaggio repubblicano basato sull’idea di virtù e di partecipazione si esaurisce con il Terrore per essere soppiantato, già a partire dal Termidoro, da un linguaggio liberale nettamente distinto e fondato sulla superiorità di una iniziativa privata cui vengono inesorabilmente subordinati tutti i principi di bene comune. Ne uscirà una forma di liberalismo ancora intriso di elementi di repubblicanesimo ma ormai alternativo ad esso.
Nella ricostruzione proposta da Kalyvas e Katznelson, secondo l’interpretazione che ne dà Spitz, il liberalismo si sviluppa all’interno del repubblicanesimo quando ci si rende conto che gli strumenti forniti da quest’ultimo non sono adatti a sostituire il corpus istituzionale monarchico al fine di governare una società moderna e complessa. Nella riflessione degli autori studiati (Adam Smith, Adam Ferguson, Thomas Paine, James Madison, Madame de Stael e Benjamin Constant) la nascita di grandi Stati centralizzati, la necessità di sistemi giuridici formali, la pluralità morale e religiosa introdotta dalla Riforma, l’emergere definitivo di una economia basata sulla circolazione delle merci dava origine ad una nuova classe “borghese” e richiedeva una più netta separazione tra lo Stato e la sfera privata. In questo contesto del tutto nuovo non poteva esistere nessun governo stabile che non tenesse conto della diversità degli interessi individuali e non interpretasse la dimensione politica come strumento di protezione di attività private. Insieme ad altri questi pensatori riuscirono a sviluppare un linguaggio diverso, il liberalismo costituzionale, che non ha una genealogia autonoma ma recependo il repubblicanesimo lo trasforma radicalmente perché da un lato ne accetta alcune tematiche (il bene comune) e dall’altro inietta nuovi valori (i diritti fondamentali dell’individuo) alla ricerca di un equilibrio che potesse essere tradotto istituzionalmente in un governo stabile e adeguato alla società moderna. Mentre in alcuni, e segnatamente in Paine e Madison, gli echi del repubblicanesimo rimangono marcati, in altri, specificatamente in Madame de Staël e Constant, lo sviluppo liberale diviene più evidente e in qualche caso (Constant) giunge all’accettazione dell’istituto monarchico. Sul piano teorico il passaggio dal repubblicanesimo al liberalismo si compie in un certo arco di tempo mentre sul piano storico la svolta sarebbe di fatto avvenuta con la fine del Terrore e l’avvento del Termidoro.
Questa ricostruzione viene modificata da Andrew Jainchill28 che invece, sempre nell’analisi di Jean-Fabien Spitz29, considera il Termidoro ancora espressione del repubblicanesimo, ma di una forma ormai matura che si oppone alla tirannia della maggioranza imperante durante il Terrore e che era stata il prodotto non di una teoria ma degli eventi drammatici del momento. Per Jainchill il liberalismo si affermerà in versione autoritaria con il colpo di stato del 18 brumaio e l’avvento di Napoleone.
Il momento centrale è dunque la discussa attribuzione al Termidoro dell’etichetta di repubblicanesimo. In alcune interpretazioni, il Termidoro appartiene ancora addirittura al repubblicanesimo classico30,31, in altre costituisce la data di nascita del liberalismo, sia pure di una forma particolare ancora fortemente intrisa del linguaggio repubblicano32.
Al di là del fatto che il repubblicanesimo sia scalzato dal liberalismo con il Termidoro o con il Consolato, Jean-Fabien Spitz33 contesta comunque la tesi del suo esaurimento. Egli infatti ritiene che il repubblicanesimo non fosse precipuamente caratterizzato dagli elementi che ad esso attribuiscono sia Kalyvas e Katznelson che Jainchil, e che in effetti vengono abbandonati nel corso della rivoluzione, ma consistesse in un’idea di libertà intesa come non dominio che sopravvive alle contorsioni rivoluzionarie per continuare nella democrazia radicale dell’Ottocento e giungere sino ad oggi conservando una stringente attualità. In particolare, sostiene Spitz, si attenuano alcuni elementi marginali del repubblicanesimo, segnatamente il concetto di virtù e di partecipazione civica, ma rimane in vita il suo elemento centrale ovvero quel concetto di libertà inteso in senso estensivo a comprendere il non dominio. Questa concezione caratterizzerà ancora il pensiero di Filippo Buonarroti, di Louis Blanc, di Emile Durkheim e dei teorici della democrazia radicale. Nella loro riflessione la legge viene intesa come garanzia di una libertà irreversibile, una tutela che assicura l’esercizio dei diritti di fronte ad un potere che non è più arbitrario e lo Stato deve salvaguardare quelle condizioni (sussistenza economica, istruzione) che consentono l’accesso pieno all’esercizio dei diritti. Per questo, come sostiene Spitz, la libertà repubblicana rigetta l’interpretazione della teoria dei diritti che potrebbe portare all’accumulo illimitato ed assoluto della proprietà. Infatti l’esercizio illimitato del “diritto” di proprietà condurrebbe a forme di disuguaglianza materiale in cui l’indipendenza del cittadino e l’accesso stesso alle condizioni di non dominio non sarebbero più garantiti a tutti.
Interpretando il pensiero di Spitz si può inferire che la libertà repubblicana, proprio nell’esperienza rivoluzionaria, tende a perdere gli elementi positivi (in particolare il concetto di virtù) per attestarsi su una base negativa comunque molto più ampia rispetto alla concezione liberale (limitata alla non interferenza) ed iniettata dall’idea di uguaglianza.
La democrazia radicale dell’Ottocento
Ma quale fu il lascito della grande rivoluzione visto dalla parte di uno degli eredi, la democrazia radicale? In Europa il mito della rivoluzione francese continuerà ad affascinare i movimenti nazionali per tutto l’Ottocento ed anche oltre34. Complesso ed articolato il giudizio di Mazzini che attribuiva alla rivoluzione francese la missione storica di aver “rotto il sonno de’ popoli” 35 risvegliando ed anzi formando una vera coscienza popolare. Ne mutuava il metodo rivoluzionario36 e ne ammetteva il carattere di evento epocale dalla natura indiscutibilmente progressista37.
Diverse comunque le critiche, non solo limitate al piano politico, che il pensatore genovese esprimerà nel corso del tempo nei confronti della grande rivoluzione con l’intento esplicito di sottrarre il movimento nazionale italiano ed europeo al mito del primato francese. Rimarcando la carica romantica e l’approccio olistico del pensiero mazziniano, Roland Sarti sostiene, in modo efficace ma forse un po’ troppo liquidatorio, che “la Rivoluzione francese rappresentava per Mazzini il materialismo illuminista che aveva rinnegato i valori dello spirito e portato a guerre e disastri” 38.
In realtà Mazzini giudicava la grande rivoluzione un passaggio assolutamente necessario ma ormai concluso e ne auspicava il superamento. Persino nei confronti del Terrore, che pure aborriva, non muoveva obiezioni ideologiche specifiche se non quelle rivolte al complesso della vicenda rivoluzionaria. Infatti, nella riflessione di Mazzini, la fase del terrore era legata alle contingenze storiche come ebbe a precisare nel 1832: “…le cagioni del ’93 nella Francia erano, più che nella volontà di pochi individui, negli infiniti elementi di discordia interna, nelle insurrezioni della Vandea e de’ dipartimenti, nelle trame segrete degli alleati, nelle ostilità aperte del patriziato o del sacerdozio” 39.
E’ nei confronti dell’intera vicenda rivoluzionaria che Mazzini pone precise obiezioni sul piano ideologico. Rilevando il carattere individualistico della grande rivoluzione, nel 1834 scriveva40: “La Rivoluzione Francese deve essere considerata non come un programma, ma come un riassunto; non come iniziazione d’un’Epoca nuova, ma come l’ultima formola d’un’Epoca che sta per conchiudersi; cangiamento quindi del punto d’onde devono movere i lavori dell’intelletto: rinovamento di tutto quanto l’edifizio politico: introduzione d’un elemento nuovo nella vita accertata dei popoli: sostituzione della scuola del Dovere a quella del Diritto, dell’idea d’una missione aun impulso negativo di ribellione, dell’Umanità all’uomo…”. Particolarmente interessante, ai fini della presente trattazione, risulta la giustapposizione del dovere al diritto e dell’umanità all’uomo nella quale si esprime compiutamente un’idea positiva di libertà basata non sulla rivendicazione individualistica del diritto ma sull’imperativo categorico morale del dovere ovvero della solidarietà nei confronti dell’altro che è la condizione necessaria per la piena appartenenza dell’uomo alla società (sotto il profilo politico) e all’umanità (dal punto di vista morale). E’ appena il caso di precisare che il dovere cui fa riferimento Mazzini, che pure era profondamente religioso, non è una forma di carità affidata alla buona volontà ma esprime la necessità di una struttura sociale che assicuri la dignità di tutti gli uomini ed il progresso dell’intera umanità. Il dovere mazziniano si colloca a pieno titolo nella tradizione dello zoon politikon della Polis greca, della virtù civica della Res Publica romana, della vita activa di Machiavelli. Inoltre, per alcuni aspetti, sembra rielaborare in modo originale quella cessione dei diritti individuali che Rousseau poneva alla base del suo contratto sociale.
Tornando alla grande rivoluzione, nel 1835 Mazzini aggiungeva: “Appena la Rivoluzione francese conchiuse un’Epoca, i primi raggi d’un’altra si mostrarono sull’orizzonte: appena l’individuo umano ebbe dichiarato, colla Carta dei diritti, il proprio trionfo, l’intelletto presentì un’altra Carta, quella dei principi” … “Il passato ci è fatale. La Rivoluzione francese, io lo affermo convinto , ci schiaccia .. Abbagliati dallo splendore delle sue lotte gigantesche, affascinati dal suo guardo di vittoria, noi duriamo anch’oggi prostrati davanti ad essa. Uomini e cose, aspettiamo tutto da’ suoi programmi; e tentiamo di ricopiare Robespierre e Saint Just … Noi stiamo oggi fra due epoche, fra il sepolcro di un mondo e la culla d’un altro; tra l’ultimo limite della sintesi individuale e la soglia dell’Umanità” 41. Nel 1860, nei “Doveri dell’Uomo”, proprio riferendosi alla rivoluzione francese, un Mazzini che ormai aveva definito compiutamente il proprio pensiero era ancora più esplicito giudicando un grave errore quello di ordinare la società “sul rispetto unicamente dei diritti dell’individuo, dimenticando interamente la missione educatrice della società”, un approccio che non poteva non condurre all’”ineguaglianza e all’oppressione” 42. E’ questa l’obiezione fondamentale che il pensatore genovese muove alla grande rivoluzione.
CDL 1 Novembre 2015
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- Per una rassegna sulla relazione tra repubblicanesimo e tema del conflitto si veda: Marco Geuna, cit.
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- Si veda in proposito: Thomas Casadei, cit., pp. 175-197.
- Miryam Giargia. ”Introduzione”, “Sidney e Rousseau tra repubblicanesimo e contrattualismo”, “La virtù di Shatesbury e Rousseau”. In: Disuguaglianza e virtù. Rousseau e il repubblicanesimo inglese. Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano, 2009.
- Per una rassegna sul repubblicanesimo britannico si veda Blair: Worden (2004). Le idee repubblicane e la rivoluzione inglese. In: Maurizio Viroli (a cura di). Libertà politica e virtù civile. Significati e percorsi del repubblicanesimo classico. Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2004.
- Norberto Bobbio. Liberalismo e Democrazia. Simonelli, Milano, 2006, pp 54-55.
- Jean-Jacques Rousseau. Il contratto sociale, pp 63-64. Ariccia, Fabbri editore, 1998.
- Roberto Guiducci. Introduzione. Rousseau. Il contratto sociale”. Ariccia, Fabbri, 1998, pp 25-26.
- Keith Michael Baker. Le trasformazioni del repubblicanesimo classico nella Francia del Settecento. In: Maurizio Viroli (a cura di). Libertà politica e virtù civile. Significati e percorsi del repubblicanesimo classico. Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, pp. 149-175, 2004.
- Un’ottima rassegna sull’influenza esercitata da Montesquieu sul movimento giacobino e rivoluzionario proprio relativamente al concetto di virtù civica è presente in: Domenico Felice (a cura di). Poteri Democrazia Virtù. Montesquieu nei movimenti repubblicani all’epoca della Rivoluzione francese. Milano, Franco Angeli, 2000.
- Unica eccezione nel panorama della cultura illuminista è il pensiero di Jean-Jacques Rousseau che invece rovesciava i termini del divenire storico affermando la tesi di un regresso continuo dell’umanità a partire da uno stato originario di libertà ed eguaglianza. In proposito si veda la bella introduzione di Roberto Guiducci all’edizione de “Il contratto sociale” pubblicata nel 1998 dalla Fabbri editore.
- Daniele Di Bartolomeo, cit.
- Blair Worden, cit.
- Andreas Kalyvas, Ira Katznelson. Liberal beginnings. Making a republic for the moderns. Cambridge, Cambridge University Press, 2008.
- Jean Fabien Spitz. Républicanisme et libéralisme dans le moment révolutionnaire. In: Annales historiques de la Révolution française, 358: 21-47, 2009.
- Andrew Jainchill. Reimagining politics after the Terror : the republican origins of french liberalism. Itaca e London, Cornell University Press, 2008.
- Jean Fabien Spitz, cit.
- Yannick Bosc. La Constitution de l’an III : un républicanisme classique? Révolution Française.net, 6 Settembre 2008.
- Andrew Jainchill, cit.
- Andreas Kalyvas, Ira Katznelson, cit.
- Jean Fabien Spitz, cit.
- Per una panoramica approfondita della democrazia radicale europea, compresa l’influenza del mito della rivoluzione francese, si veda: Maurizio Ridolfi. La democrazia radicale nell’ottocento europeo. Milano, Feltrinelli,2005.
- Giuseppe Mazzini. A Carlo Alberto di Savoia. Un italiano. Parigi, 1847, p. 10.
- Giuseppe Parlato. Mazzini e l’opzione rivoluzionaria. In: Il Risorgimento italiano. Le culture politiche che hanno fatto l’unità d’Italia. A cura di Giuseppe Parlato e Marco Zaganella, Fondazione Ugo Spirito/Cooperativa Nuova Cultura, Roma 2010.
- Sul rapporto di Mazzini con la rivoluzione francese si veda: Massimo Scioscioli. La critica alla rivoluzione francese. In: Giuseppe Mazzini: i principi e la politica, pp 133-139, Napoli, Guida editore, 1995.
- Roland Sarti. Giuseppe Mazzini e la tradizione repubblicana. In: Almanacco della Repubblica. A cura di Maurizio Ridolfi. Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 56-67.
- Giuseppe Mazzini. D’alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia (1832). In: Scritti editi ed inediti, vol I, pp 173-249, Milano, Daelli, 1861.
- Giuseppe Mazzini. Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa (1834). In: Scritti editi ed inediti, vol V, pp 55-84, Milano, Daelli, 1863.
- Giuseppe Mazzini. Fede e Avvenire. In: Scritti editi ed inediti, Vol. V. Milano, Daelli, 1863, pp 132-218.
- Giuseppe Mazzini. Doveri dell’Uomo. Londra, 1860, p. 34.