Mentre nel campo europeista si fronteggiano una concezione liberista, sinora largamente prevalente, ed una democratica, ancora in fase di timida definizione, intanto emerge prepotentemente un terzo protagonista, il populismo anti-europeo. Una partita a tre sul futuro dell’Europa ed il destino delle prossime generazioni. La posta in gioco è altissima: la sopravvivenza stessa della democrazia in Europa.
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Le elezione europee sono ormai prossime ma il dibattito politico stenta a maturare rimanendo ancorato ad anguste logiche nazionali o addirittura regionali. Eppure la posta in gioco è alta come non mai essendo rappresentata dalla idea stessa di Europa. E la partita decisiva vede in campo tre schieramenti: l’autoritarismo liberista che ha imposto la politica di austerità, un europeismo democratico ancora in fase di timida definizione e un populismo anti-europeo che quasi ovunque ha assunto un carattere francamente anti-democratico.
I termini di questo conflitto sono stati acutamente precisati da Curzio Maltese in un articolo pubblicato sul Venerdì di Repubblica1 nel gennaio scorso. Egli si rammaricava di dover scegliere tra un europeismo dominato dai banchieri, cui si sono consegnati i partiti storici di destra e di sinistra, e un populismo anti-europeo che, a prescindere dal colore politico e dalle intenzioni, non può che esitare in un nuovo fascismo. Maltese argomentava che l’abolizione della moneta unica, sostenuta dai movimenti e partiti populistici, sconvolgerebbe le economie di molti Paesi, compresa l’Italia, finendo per travolgerne le già fragili istituzioni democratiche. Auspicava infine la nascita di una forza europeista in grado di opporsi all’attuale modello di Europa (che successivamente Maltese ha ritenuto di identificare con la lista Syriza).
In effetti la questione dell’euro sembra essere lo spartiacque tra i sostenitori dell’Europa e quanti ritengono di poterne fare a meno. Per comprenderne il perché occorre ricapitolare brevemente le ragioni economiche e politiche che portarono a concepire e realizzare la moneta unica.
Breve storia della moneta unica
La storia della moneta unica europea2 comincia nel 1971 quando gli Stati Uniti si trovarono a fronteggiare il crescente indebitamento generato dalla guerra in Vietnam e scelsero di stampare carta moneta sospendendo la convertibilità del dollaro in oro. Era la fine degli accordi di Bretton Wood (1944), basati su un regime di cambi fissi tra le altre valute ed il dollaro, il cui valore veniva garantito dalla convertibilità in oro.
Il dollaro non ne uscì deprezzato in virtù del duplice ruolo di moneta di scambio e di valuta di riserva. La necessità di acquistare in dollari i prodotti del mercato mondiale, a cominciare dal petrolio, garantiva una richiesta sempre elevata e preservava quindi il valore della moneta americana. La inconvertibilità del dollaro determinò però il passaggio epocale del sistema monetario internazionale dalla parità fissa a quella fluttuante. Negli anni successivi la Comunità europea compirà due tentativi per creare un’area di stabilità monetaria attraverso un meccanismo di cambio delle diverse valute che contenesse le oscillazioni entro una fascia predeterminata. Nell’aprile 1973 fu adottato il primo progetto di integrazione, quello che va sotto il nome di serpente monetario europeo, presto frustrato dalla crisi petrolifera. La Gran Bretagna e l’Irlanda ne usciranno qualche mese dopo e l’Italia seguirà nel 1973. Nel 1979 fu istituito il sistema monetario europeo da cui l’Italia, insieme alla Gran Bretagna, uscirà nel 1992 sull’onda di una tempesta speculativa per rientrare nel 1996 con tassi di cambio e margini di fluttuazioni variati.
I due tentativi furono operati nella consapevolezza che i Paesi europei non fossero in grado di fronteggiare le grandi crisi internazionali in ordine sparso. Ma l’integrazione monetaria prevista si era rivelata insufficiente. Innanzitutto l’obiettivo era quello di favorire la stabilità monetaria europea ma non di istituire una moneta unica. E così nella crisi petrolifera del 1973 i Paesi europei dovettero pagare un prezzo altissimo per non poter ricorrere, come avevano fatto gli Stati Uniti, all’emissione di carta moneta in assenza di una divisa che, come il dollaro, mantenesse il valore al di là della convertibilità in oro.
In secondo luogo si volevano mantenere i tassi di cambio attraverso lo strumento monetario quando le economia reali degli Stati membri risultavano fortemente divergenti in alcuni “fondamentali” come l’inflazione. Negli anni precedenti la crisi del 1992 l’Italia, in virtù del differenziale di inflazione con la Germania, era largamente sfavorita dal livello di cambio previsto tra la lira ed il marco ed aveva perso un ampio margine di competitività sui mercati internazionali.
Diventava così ancora più stringente la necessità per i Paesi europei di adottare uno strumento monetario utilizzabile sia per fronteggiare le crisi internazionali che per mantenere il livello di competitività delle economie degli Stati membri. La naturale evoluzione dello SME fu dunque l’adozione di una moneta unica e la nascita dell’euro. Questa volta inoltre si pensò di rendere più omogenee le diverse economie nazionali imponendo la convergenza verso alcuni fondamentali economici (quelli stabiliti a Maastricht nel 1992): un rapporto deficit/PIL pari o inferiore al 3%; un rapporto debito/PIL inferiore al 60%; un tasso di inflazione pari o inferiore a 1,5 punti percentuali rispetto al valore medio dei tre stati membri a più bassa inflazione; un tasso di interesse a lungo termine pari o inferiore ai due punti percentuali rispetto al valore medio dei tre stati membri a più bassa inflazione. Per l’Italia fu ammessa l’eccezione sul rapporto debito/PIL, al momento dell’ingresso ben superiore al 60%. Un’eccezione che, come si vedrà, sarà foriera di ulteriori sviluppi.
I vantaggi per l’Italia
Come più volte ricordato da Carlo Azeglio Ciampi e da Romano Prodi, l’ingresso nell’euro ha prodotto per l’Italia vantaggi immediati e di enormi proporzioni3.
A cominciare dagli interessi risparmiati sul debito pubblico che, secondo alcuni calcoli, sono stati nell’immediato pari a 80.000 miliardi di lire (40 miliardi di euro). Una cifra paragonabile ad una manovra finanziaria di enormi proporzioni e che l’Italia, da subito, non ha dovuto più pagare per il solo fatto di essere entrata nell’euro. La metà di quel “dividendo” fu utilizzata per restituire la tassa sull’Europa pagata dai contribuenti italiani l’anno prima.
L’impossibilità di ricorrere alla svalutazione della moneta ha certamente preservato il risparmio. E avrebbe potuto favorire l’adozione di regole di mercato non drogate. La svalutazione era sempre stata utilizzata per abbassare il prezzo dei prodotti italiani e favorire le esportazioni. In questo modo si era a lungo incentivata una competitività legata al basso costo delle merci. Con l’ingresso nell’euro l’imprenditoria italiana avrebbe dovuto cambiare approccio puntando sulla qualità e l’innovazione dei prodotti. Ma così non è stato per una serie di ragioni che nulla hanno a che fare con l’euro e che sono invece legate alla formazione di una classe imprenditoriale che nel complesso, e con le dovute eccezioni, ha sempre rifiutato la libera concorrenza rifugiandosi nella rendita di posizione acquisita in virtù di meccanismi protettivi.
Un ulteriore vantaggio derivante dall’ingresso nell’euro è rappresentato dal fatto che le regole sulla convergenza economica hanno rappresentato uno scudo protettivo nei confronti delle politiche dissennate. Non è un caso se l’unica regola del trattato di Maastricht sulla quale era stata consentita l’eccezione (il rapporto debito/PIL inferiore al 60%) è stata sistematicamente violata dai governi di destra che hanno portato il debito pubblico al massimo storico. Ma cosa sarebbe accaduto senza i vincoli imposti dall’Europa? Dove avrebbero condotto la finanza creativa e le cartolarizzazioni fasulle se non fossero state arginate dalle regole comunitarie?
Infine l’euro ha rappresentato lo strumento, questa volta unitario, con il quale i Paesi UE hanno potuto affrontare la crisi economica mondiale ancora in atto. Uno strumento certo insufficiente e per molti aspetti inadeguato. Ma ancora una volta c’è da chiedersi dove sarebbe finita l’Italia se avesse dovuto affrontare isolatamente la tempesta. Se avesse dovuto svalutare la lira e pagare con una moneta deprezzata gli interessi sul debito pubblico. O acquistare petrolio con dollari supervalutati e ad un prezzo che nel periodo 2001-2008 era cresciuto da 30 a 145 dollari al barile.
Quale Europa
Il percorso sinora seguito dalle autorità comunitarie è solo in parte sovrapponibile a quello indicato dal movimento federalista europeo che, già a partire dalla metà degli anni ’60, aveva elaborato un progetto compiuto di Europa fondato sull’integrazione e sulla progressiva cessione delle sovranità nazionali da realizzare attraverso tre passaggi fondamentali: l’elezione diretta del Parlamento europeo, l’unione monetaria ed economica, la costituzione di un governo sovranazionale europeo.
Nella elaborazione teorica federalista la moneta unica era una necessità economica e politica e un passaggio decisivo verso l’unione europea. Si veda in proposito l’editoriale che Mario Albertini pubblicò su Le Federaliste4 nel 1971, quando già si discuteva ma ancora non veniva decretata la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Negli ambienti federalisti era già maturata la consapevolezza che le grandi congiunture internazionali non potessero essere gestite dai singoli Paesi. Come si incaricò di dimostrare di lì a poco la crisi petrolifera del 1973.
L’editoriale di Albertini era premonitore per molti aspetti. Egli, tra l’altro, scriveva: “… una moneta europea in assenza di uno Stato europeo è una follia”. Proprio questo passaggio, la costituzione di un governo europeo, è mancato o meglio è stato realizzato in parte per una serie di ragioni. Nei tempi recenti l’elemento decisivo è risultato l’atteggiamento della Germania che dovendo già rinunciare alla propria sovranità monetaria (il marco era la moneta di riferimento per tutta l’Europa) non volle sacrificare anche la propria autonomia politica5. Certa di riuscire a trascinare le regioni orientali ereditate dopo il crollo del muro di Berlino, la Germania non ritenne di condividere lo sforzo che gli altri Paesi dovevano compiere per convergere verso i parametri richiesti dalla moneta unica. Ciascun Paese si è fatto carico dei sacrifici necessari e deve ancora oggi fare i compiti a casa per restare nella moneta unica. La politica di austerità imposta alla UE dalla Germania di fronte alla attuale crisi economica è figlia di questa strategia.
E’ appena il caso di ricordare che la moneta unica è solo uno strumento, di per sé neutro, che nulla ha a che vedere con le scelte politiche, lungimiranti o meno, che sono state operate dai governi. Quali scelte si offrono oggi ai Paesi europei e all’Italia? Le opzioni in campo sono almeno tre: l’Europa liberista che già c’è, l’Europa democratica che ancora non c’è, l’Anti-europa incombente dei populismi.
L’Europa liberista (che già c’è)
La prima è quella di continuare sulla strada della austerità bloccando l’integrazione europea allo stadio attuale in attesa che le politiche restrittive producano frutti. E’ l’idea perseguita e realizzata dal governo tedesco con l’appoggio di altri governi del Nord Europa ed il sostegno ampio della propria opinione pubblica. Essa nasce all’interno della concezione liberaldemocratica di cui costituisce l’interpretazione economicistica e liberistica e da cui va distaccandosi sempre più per un aspetto fondamentale: l’esclusione dell’opinione pubblica dalle grandi scelte politiche e l’innesto di meccanismi autoritari nel processo decisionale. E questo vale anche per la Germania, la cui opinione pubblica è certamente partecipe ed offre un consenso ampio alla politica restrittiva ma rimane comunque esclusa da altre grandi scelte che il suo governo si appresta a compiere.
In Germania, come in Europa e nel resto del mondo, la politica liberista si accompagna ad un fenomeno: la traslazione del livello decisionale dall’ambito strettamente politico a quello economico-finanziario e la conseguente trasformazione del potere da elemento controllabile a fenomeno tendenzialmente imperscrutabile ed arbitrario. Tuttavia è bene ricordare che i governi fanno parte, attivamente o passivamente, di questo livello decisionale e ne rappresentano la componente visibile e contestabile.
La ristrutturazione liberista sinora si è rivelata l’opzione prevalente nel senso che è stata quella scelta dalla Germania ed accettata dagli altri governi europei, di destra e di sinistra. Se sia anche l’opzione vincente è tutto da verificare. Già oggi alcuni nazioni rischiano un default che travolgerebbe anche gli altri Paesi, compresa quella Germania le cui banche detengono tanta parte del debito pubblico greco, spagnolo e italiano. Inoltre il prezzo pagato, sul piano politico e sociale, è stato enorme. Una disuguaglianza crescente ed ormai insostenibile sul piano economico e sociale6. La soggezione a poteri finanziari irresponsabili sul piano politico7.
Il Partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) rappresenta il nuovo fronte del liberismo mondiale8. E’ infatti in corso un negoziato tra USA ed Europa finalizzato a rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici sì da facilitare la compravendita di beni e servizi9. E questo sta accadendo senza che le opinioni pubbliche, anche quella tedesca, ne siano informate. Non sorprende dunque che il contenuto della trattativa sia assolutamente assente dal dibattito in corso sull’Europa.
Eppure la creazione della più ampia area di libero commercio del mondo, senza un adeguato controllo democratico, rischia di diventare lo strumento delle grandi forze economico-finanziarie per aggirare gli standard di sicurezza e di qualità previsti dalle normative nazionali. Le barriere commerciali di cui si parla, infatti, non sono solo quelle doganali ma comprendono l’insieme di regole, norme e procedure adottate dai singoli Paesi e dalla Comunità europea a tutela del lavoro e dell’ambiente10.
Sul fronte liberista sono schierati i partiti conservatori aderenti al Partito Popolare Europeo o al raggruppamento dei Conservatori e Riformisti Europei, alcuni di tradizione europeista (la Democrazia Cristiana tedesca, il Partito Popolare Spagnolo, il Partito Socialdemocratico portoghese, Piattaforma civica in Polonia). Ma appartengono a questo schieramento anche i partiti conservatori euroscettici (i Tory britannici) e quelli francamente reazionari che hanno impresso ai rispettivi Paesi svolte politiche difficilmente compatibili con la struttura costituzionale liberal-democratica dell’Europa (si veda il paragrafo sui populismi in Europa).
L’Europa democratica (che ancora non c’è)
Ma l’austerità liberista non è un destino ineluttabile. Joseph Stiglitz sostiene che “la disuguaglianza non è il risultato di forze astratte di mercato, ma il frutto di politiche governative che formano e dirigono le forze della tecnologia e dei mercati, nonchè, in senso più ampio, della società nel suo complesso. Vi è, in questo, una nota che allo stesso tempo è di speranza e di disperazione: di speranza perché significa che questa disuguaglianza non è inevitabile, e modificando le misure politiche siamo in grado di ottenere una società più egualitaria e più efficiente; di disperazione, perché i processi politici sottostanti sono molto difficili da cambiare”11.
Paul Krugman aggiunge che le politiche di austerità, peraltro basate su studi assolutamente fallaci sul piano della metodologia scientifica12, sono state praticate perché sostenute da una minoranza che comunque è molto influente essendo costituita dai ceti più ricchi (il famoso 1% della popolazione)13. Questi ceti ricaverebbero molto di più da un’economia fiorente ma riescono comunque a trarre qualche vantaggio anche dalla recessione in corso (per esempio acquistando titoli di stato a rendimento molto alto). Ai più ricchi non interessa quanto l’austerità possa peggiorare l’economia mondiale se riescono a sopportarne le conseguenze e se a pagare la crisi sono gli altri.
Queste le considerazioni che emergono dal mondo accademico e finanziario americano. Stiglitiz e Krugman non sono pericolosi rivoluzionari. Sono economisti affermati (hanno ricevuto il premio nobel rispettivamente nel 2001 e nel 2008) ed appartengono ad una scuola di pensiero, quella keynesiana, che ha fatto la storia dell’Occidente. Anche e soprattutto in virtù delle loro tesi è maturata sul piano teorico un’idea alternativa all’austerità. Che non è solo economica ma anche politica perché identifica due destinatari della contestabilità: i governi sul piano politico, l’1% più ricco della popolazione sul piano sociale.
Dunque esiste già sotto il profilo culturale un’alternativa credibile al liberismo imperante. Ma anche sul piano politico comincia a muoversi qualcosa. Il movimento americano di Occupy Wall Street o quello degli indignados spagnoli sono segnali forti di quanto sia cresciuta la richiesta di democrazia e quanto ampia sia l’opposizione all’autoritarismo liberista.
Un’idea democratica dell’Europa passa attraverso un rilancio dell’integrazione attraverso due passaggi concatenati. Il primo dei quali è l’abbandono della politica di austerità con l’adozione di una strategia economica espansiva analoga a quella intrapresa da quei Paesi occidentali (Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud) che stanno emergendo dalla crisi. Tale strategia ha un costo che non può essere sostenuto da quelle nazioni che, come l’Italia, hanno un debito pubblico troppo elevato e che comunque devono impegnarsi a ridurlo attraverso una ristrutturazione profonda della pubblica amministrazione e non solo. La questione del debito pubblico e quella degli investimenti viaggiano di pari passo. E a questo proposito non mancano progetti che prevedono una condivisione solidale delle garanzie sul debito (non del debito stesso) attraverso l’emissione di obbligazioni (gli eurobond) da parte di una agenzia dedicata della UE. Non mancano nemmeno idee sulle politiche di sostegno all’economia finanziabili con la liberazione di fondi sinora impegnati a tenere il bilancio in un equilibrio peraltro fittizio. Ma queste proposte, e siamo al secondo passaggio concatenato, non verranno accettate dalla Germania senza un’ulteriore cessione di sovranità nazionale in materia di bilanci14. E su questo aspetto si gioca il futuro dell’Europa: il destinatario della ulteriore delega non può essere un consesso tecnico, la troika costituita dalla Commissione Europea, BCE e FMI, che non risponde a nessuna opinione pubblica. L’autorità comunitaria, quella che decide la sorte delle popolazioni, deve essere necessariamente politica ed espressione della volontà dei cittadini.
Quanto è larga questa strada? Non molto ma è in qualche modo obbligata. Già oggi alcune nazioni si trovano sull’orlo del default e, al contempo, devono affrontare una crisi socio-economica divenuta insostenibile. Il crollo, sia esso economico o sociale, di una qualunque nazione europea ha buone probabilità di travolgere gli altri Paesi, compresa la Germania, le cui banche detengono tanta parte del debito pubblico greco, spagnolo e italiano. Proprio contando sullo stato di necessità alcuni governi, segnatamente quello italiano, stanno forzando la mano alla UE con politiche espansive che vanno dichiaratamente oltre gli accordi europei, in particolare sull’abbassamento del rapporto deficit/PIL. La famosa copertura finanziaria dei recenti provvedimenti del governo Renzi è propria questa: stornare una parte delle entrate fiscali dalla riduzione del debito pubblico al finanziamento di quelle misure che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero favorire i consumi e accelerare la ripresa economica. La scommessa è che aumentando il PIL si possa in breve riallineare il rapporto con il debito pubblico sui parametri previsti. Una scommessa indubbiamente rischiosa: l’Italia potrebbe finire sotto il controllo della troika come già la Grecia e l’Irlanda. Una scommessa però che costituisce al momento l’unica risposta alternativa e concreta alla pervicace politica di austerità imposta dalla Germania. E una scommessa sulla quale possono convergere quei partiti di ispirazione democratica e socialista che saranno comunque rappresentati in forze nel prossimo parlamento europeo.
In ogni caso, a prescindere dagli strumenti adottati (la forza delle argomentazioni o le forzature di fatto), una politica che intenda riformare l’UE non può fare a meno della moneta unica. Che è una necessità economica ma non solo. L’euro doveva rappresentare il catalizzatore di una politica europea sempre più omogenea in settori considerati vitali come quello dei diritti civili, politici e sociali. E così è stato, almeno in parte, sebbene i risultati siano stati inferiore alle attese. Ma oggi, di fronte alla crisi mondiale, l’euro può assumere un significato ulteriore potendo rappresentare lo strumento dei governi europei per imporre un funzionamento del mercato meno condizionato da poteri finanziari e più aderente ai problemi dell’economia reale (occupazione compresa).
Perché la moneta unica possa svolgere questa funzione è però necessario che non rimanga uno strumento isolato. A questo proposito particolarmente utili sembrano le proposte di recente emerse in sede comunitaria per una politica culturale che tuteli la diversità europea sottraendola al negoziato per il partenariato trans-atlantico15. Il progetto è sostenuto soprattutto dalla Francia e l’intento è di arrivare a proposte operative subito dopo le elezioni europee.
Le forze che possono farsi carico di un nuovo progetto di Europa sono quei partiti democratici e socialisti, aderenti al PSE, dalla cui cultura politica stanno emergendo le nuove idee.
L’anti-europa populista (che potrebbe esserci)
Paradossalmente ma non troppo, una delle proposte oggi più dibattute viene dai movimenti e partiti populistici ed è quella di rinunciare alla moneta unica per riacquistare la completa sovranità nazionale.
Una proposta basata sull’assunzione che la svalutazione della moneta nazionale sia una leva decisiva per rilanciare le esportazioni ed aumentare il PIL. Ignorando il fatto che oggi nei Paesi industrializzati, a differenza di quanto accadeva nel passato, si produce trasformando semilavorati importati dall’estero, il cui costo risulterebbe di molto aumentato dalla svalutazione della moneta16. Basti pensare che in Italia l’importazione di semilavorati è già pari al 60% del totale. Analogamente i costi dell’approvvigionamento energetico salirebbero a dismisura per il fatto di dovere acquistare il materiale combustibile utilizzando una moneta fortemente deprezzata. Inoltre se tutti svalutassero nessuno ci guadagnerebbe. Infine per poter esportare è necessario produrre ed alcuni Paesi, tra i quali il nostro, hanno ormai una base industriale ristretta ed indebolita.
Il risultato dell’uscita dall’euro sarebbe per i Paesi dell’Europa mediterranea un vero disastro: debito pubblico insostenibile, inflazione a doppia cifra, credito definitivamente paralizzato, esplosione di costi energetici, produzione industriale ferma, l’ecatombe sociale definitiva. Ricordando l’esperienza della Repubblica di Weimar, una democrazia avanzata ma imbelle, si può facilmente immaginare quali forze trarrebbero vantaggio dal caos. Laddove le istituzioni democratiche non sono ancora ben consolidate sarebbe la fine della democrazia e l’avvento di un nuovo fascismo.
Converrà riconoscerlo il populismo dai suoi tratti essenziali: concezione sacrale del popolo con investitura diretta e altrettanto sacrale del capo (da cui scaturiscono il plebiscitarismo ed il liderismo), attribuzione dei problemi a nemici esterni (da cui il velleitarismo delle soluzioni), concezione pervasiva, dogmatica e totalizzante della politica (da cui il radicalismo ed il massimalismo delle proposte).
Come accade per tutte le malattie, specie nella fase iniziale, i sintomi non sono sempre tutti presenti e tutti evidenti. Vi è tuttavia un elemento patognomonico: il rapporto non mediato tra un leader carismatico ed il popolo inteso come corpo unico, organico ed armonico. Il leader accoglie, interpretandolo, il comune sentire stabilendo con il popolo una relazione diretta che non può non essere unanimemente accettata. Questa caratteristica rende il populismo intrinsecamente intollerante al dissenso che da una parte rompe l’unitarietà del popolo e dall’altro disturba la relazione diretta.
Il populismo emerge nei momenti di maggiore difficoltà economica e sociale e riceve consensi sia negli strati più poveri che in quelli intermedi che risentono maggiormente della crisi. Quello di destra raccoglie non poche adesioni anche nei ceti più abbienti che temono di perdere la rendita di posizione acquisita. Il meccanismo fondamentale che lo genera è l’attribuzione della crisi a forze esterne (di volta in volta eurocrati, capitalismo mondiale, immigrati, islamici o ebrei) che congiurano o quantomeno cooperano a determinare lo stato di servitù in cui versa il popolo. Così l’espulsione degli extracomunitari o l’uscita dalla UE o l’abbandono del capitalismo diventano la panacea di tutti i mali: un’iper-semplificazione che rende le proposte difficilmente praticabili.
Il populismo si costituisce dunque sulla base di una concezione sacrale, il popolo come corpo organico depositario di tutte le virtù, che non ammette devianze interne se non in termini di complicità con le forze esterne. Si colora di nazionalismo quando accentua le diversità (etniche e religiose) della Nazione mentre assume un’accezione di sinistra quando persegue l’egualitarismo della Società (soprattutto in ambito economico).
La relazione del populismo con l’Europa deve essere vista oltre le proposte contingenti. Il populismo è certamente da considerare anti-europeista quando rifiuta (o mette in discussione) la moneta unica. O quando propone espressamente l’uscita del proprio Paese dalla UE. Ma il populismo è antieuropeista anche quando offre soluzioni non compatibili con la concezione liberal-democratica dell’Europa. Ovvero quando si propone come civiltà alternativa a quella occidentale la quale, a prescindere dalle politiche seguite dai governi, si definisce sulla base di una struttura costituzionale di tipo liberal-democratico (oltre che sull’adesione alla NATO).
I populismi in Europa
Non tutti i populismi sono di destra. Non lo è quello di Syriza, la formazione greca che nasce dall’aggregazione di partiti comunisti di cui va apprezzato lo sforzo di emancipazione social-democratica ma che non può proporsi come alternativa non populista dovendo ancora emendare la sua origine di partito anti-sistema (anti-capitalista) e dovendo inoltre scontare l’adesione di forze della sinistra radicale europea assolutamente poco credibili (in Italia e non solo). Il partito, in Grecia, ha ribadito la sua adesione alla moneta unica e alla UE che però rimane tutta da verificare nella realtà delle proposte concrete, la più significativa delle quali, la sospensione del pagamento del debito pubblico, non appare proprio coerente con la tradizione liberaldemocratica europea. L’impressione è che Syriza sia oggi più vicina al populismo socialista sudamericano che non ad un partito di sinistra occidentale.
Pure complesso il discorso sul Movimento 5 stelle che, al di là delle istanze confuse, spesso contraddittorie e quindi non intellegibili, è votato da una maggioranza di elettori di sinistra. Propone un referendum sull’adesione dell’Italia alla moneta unica (peraltro incostituzionale) con ciò collocandosi al di fuori dell’orizzonte europeista.
Appartiene invece al populismo di destra Forza Italia il cui leader non ha mai fatto mistero della sua diffidenza nei confronti delle istituzioni comunitarie né della sua contrarietà all’euro. Dall’opposizione sostenne apertamente che l’ingresso dell’Italia nella moneta unica non fosse affatto necessario e non ha mai mancato di polemizzare spesso strumentalmente con l’Unione Europea. Tanto che, secondo l’analisi di uno studioso attento come Paolo Belluci18, alle ultime votazioni politiche Forza Italia (allora PDL) si è di molto avvantaggiata elettoralmente dal clima antieuropeo e dall’aver attribuito la responsabilità della crisi italiana alla UE.
Oggi in Europa la minaccia principale è costituita dai populismi di destra, nazionalisti (o regionalisti), xenofobi, islamofobi e/o antisemiti, che nell’insieme costituiscono una galassia ancora frammentata ma che rischia di divenire particolarmente pericolosa nel caso dovesse organizzarsi con collegamenti transnazionali. Di seguito una sintesi delle molte espressioni populistiche anti-europee17:
Germania – Alternativa per la Germania (Afd daAlternative fur Deutschland). Viene considerato un partito populista di destra, esplicitamente contrario all’euro. Ha ottenuto il 4,7% dei voti alle ultime politiche de 2013 sfiorando la soglia per l’ingresso in parlamento. Nei sondaggi è oggi accreditata allo 8%.
Francia – Fronte Nazionale (FN da Front National), partito di estrema destra, xenofobo e razzista. Propone esplicitamente l’uscita della Francia dall’euro. Terzo partito con il 13,6% dei consensi alle politiche del 2012 ed il 16,9% alle amministrative del 2014. I sondaggi lo danno in ulteriore crescita.
Regno Unito – Partito per l’Indipendenza (UKIP da United Kingdom Independence Party). La Gran Bretagna non aderisce all’euro. L’antieuropeismo si esprime nella proposta di portare il Paese fuori dalla UE. Il partito indipendentista di Nigel Farage nasce nel 1993 da una scissione in seno al partito conservatore promossa in segno di protesta per gli accordi di Maastricht. Può essere considerato un partito di destra radicale. Ha ottenuto il 16,9% dei voti alle europee del 2009 ed il 3% alle politiche del 2010. I sondaggi lo danno in crescita prorompente e lo accreditano del 30% dei voti, dietro ai laburisti ma davanti ai conservatori.
Italia – Movimento 5 stelle. Nelle elezioni politiche del 2013 ha ottenuto alla Camera il 25,6% dei consenso. Nei sondaggi è oggi accreditato di un 21-23% di consensi.
Italia – Lega Nord. Per la polemica contro l’immigrazione, spesso feroce e con connotazioni francamente razziste, si configura come partito di estrema destra. Propone apertamente l’uscita dell’Italia dalla moneta unica. Nelle elezioni politiche del 2013 ha ottenuto alla Camera il 4,1% dei voti. I sondaggi la collocano attualmente al 4,5%.
Italia – Forza Italia. Partito populista di destra. Alle ultime elezioni, come PDL, ha ottenuto il 21,5% dei voti.
Spagna – Il Movimento 15 M (15 Maggio), più noto con la denominazione di Indignados, secondo recenti notizie di stampa si presenterà alle elezioni europee come Partito X. Non definita la posizione sull’euro ma se ne discute apertamente con accenti molto critici. Non è al momento assimilabile ad un movimento populista.
Austria – Il Partito della Libertà Austriaco (Fpo da Freiheitliche Partei Österreichs) è una forza radicale di destra, ostile all’euro, in passato guidata dallo stesso Jorg Haider che poi ne uscirà per fondare un partito ancora più estremista. Nelle elezioni politiche del 2013 ha raggiunto il 21,9% dei voti e punta ad un risultato ancora migliore alle elezioni europee.
Austria – Team Stronach. Partito populista di destra fondato dall’uomo di affari Frank Stronach. Propone addirittura l’uscita dell’Austria dalla UE. Alle politiche del 2013 ha ottenuto il 5,7% dei voti.
Ungheria – Movimento per una Ungheria migliore (Jobbik). Partito ultranazionalista, xenofobo, antisemita, anti-europeista. Alle ultime elezioni politiche, quelle del 6 Aprile 2014, ha raggiunto il 20,2% dei voti, a poca distanza dalla coalizione di centro-sinistra.
Ungheria – Unione civica ungherese (Fidesz) del premier Victor Orban, riconfermatosi primo partito con il 44,9% dei voti alle ultime elezioni del 6 Apriel 2014. Al governo dal 2010, Orban ha dato seguito a quattro modifiche costituzionali restrittive delle libertà civili e politiche.
Slovacchia – Slovacchia Nostra. Partito di estrema destra, di ispirazione dichiaratamente nazista, anti-europeista. Il leader, Marian Kotleba, nelle amministrative del 2013 ha raggiunto il 20% in una delle sette regioni del Paese ed è stato eletto governatore al secondo turno con il 55%.
Slovacchia – Partito Nazionale Slovacco (SNS da Slovenská Národná Strana). Partito populista di destra, xenofobo. Nelle politiche del 2012 il Partito Nazionale Slovacco ha ottenuto il 4,6% dei voti rimanendo fuori dal parlamento.
Polonia – Partito per il diritto e la giustizia (Pis), fondato dai fratelli Kaczyński, dalle forti venature populiste ed euroscettiche. In Polonia ha governato in passato e alle ultime elezioni (2011) ha raccolto il 29,9% dei voti collocandosi al secondo posto. Per le prossime elezioni europee i sondaggi lo accreditano come primo partito con oltre il 30% dei voti.
Grecia – Alba dorata. Partito xenofobo, islamofobo, antisemita e neonazista. Alle elezioni politiche del 2012 ha raggiunto il 7% dei voti.
Grecia – Syriza, guidato da Alexis Tsipras, è una coalizione di sinistra radicale nata attorno ai due ex partiti comunisti. Alle ultime elezioni politiche è divenuta la seconda forza del paese con il 26,8% dei voti.
Olanda – Partito della libertà (PVV da Partij voor de Vrijheid), il cui leader è Geert Wilders. Islamofobo e dichiaratamente contrario all’euro. Nelle elezioni politiche del 2012 ha ottenuto il 10% dei voti.
Danimarca- Partito Popolare Danese (DF da Dansk Folkeparti). Partito di destra populista decisamente antieuropeo. Alle politiche del 2011 ha ottenuto il 10% dei voti.
Svezia- Democratici svedesi (DS da Démocrates suédois). Partito di estrema destra islamofobo. Alle politiche del 2010 è entrato in parlamento con il 5,7% dei voti.
Finlandia – Veri finalndesi (Vrais Finlandais). Partito di destra anti-islamico, sostiene la necessità che la Finlandia esca dall’euro e dalla UE. Alle politiche del 2011 ha ottenuto il 10,3% dei voti ma dopo la recente crisi governativa i sondaggi lo danno in ascesa.
Bulgaria – Attacco Unione Nazionale (Ataka). Partito di destra fondamentalista, xenofobo, antisemita, contrario alla Nato e alla UE. Alle politiche del 2013 ha raggiunto il 7,3% dei voti.
Romania – Partito Popolare. Fondato dal presentatore televisivo Dan Diaconescu è un partito nazionalista e populista. Alle ultime elezioni del 2012 ha raggiunto il 14% dei voti.
Il populismo nazionalista
Non tutti i populismi sono nazionalistici e non tutti i nazionalismi sono populistici (non lo sono quello catalano e quello fiammingo che governano con grande pragmatismo). Oggi però il populismo di destra, nazionalista, rappresenta la principale minaccia per l’Europa. Di recente in Francia19 ne è stato stimato il livello di pericolosità sulla base di alcuni parametri: consenso attribuito da sondaggi recenti, influenza sull’opinione pubblica e su altri partiti politici, numero di candidati alle elezioni locali e nazionali, importanza e numero dei feudi regionali, abilità politica, efficienza dell’apparato di partito, risorse finanziarie. Il punteggio complessivo, dato dalla media dei valori attribuiti ai dieci parametri, può essere stratificato in tre fasce di pericolosità: bassa (punteggio da 1 a 3), intermedia (4-6), elevata (7-10).
Conclusioni
Il dibattito pre-elettorale appare paralizzato sullo scontro tra l’Europa dei governi e l’Europa dei movimenti. Ovvero tra l’autoritarismo liberista ed il populismo anti-europeo. Ma esiste una terza via stretta, tortuosa, faticosa. Quella dell’Europa democratica, già matura sul piano teorico ma ancora in cerca di una rappresentanza politica coerente. Che può essere assunta solo da quei partiti, democratici e socialisti, che si stanno (lentamente) emancipando dalla soggezione tecnocratica. E dalla cui cultura politica possono emergere nuove idee. L’alternativa al liberismo imperante sarà l’Europa democratica o non sarà.
CDL, Tivoli, 1 Maggio 2014
1. Curzio Maltese. L’Europa dei banchieri o quella dei populismi? Scelta tra male e catastrofe. In: Il Venerdì di Repubblica, 24 Gennaio 2014.
2. La ricostruzione degli eventi è principalmente basata su: Roberto Castaldi, La creazione della moneta unica ed il significato dell’euro, In: Dialoghi con il Presidente, a cura di M. Campopiano, L. Gori, G. Martinico, E. Stradella. Pisa, Edizioni della Normale, 2008, pp 381-394.
3. Roberto Castaldi, cit.
4. Mario Albertini. L’union monétaire et l’alternative politique européenne. L’unione monetaria e l’alternativa politica europea. Le Fédéraliste, XIII: 1971.
5 Roberto Castaldi, cit.
6. Si vedano in proposito i dati dell’OCSE riportati in: Democrazia pura, L’Economist sulla disuguaglianza nella distribuzione del reddito, 1 Luglio 2013.
7. Il fenomeno non è solo europeo. Si veda: Democrazia Pura, L’austerità ineguale, 28 Aprile 2013.
8. Barbara Spinelli. I sottosuoli del caos. La Repubblica, 5 Febbraio 2014.
9. Commissione Europea. Cos’è il Partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP)? 14 Marzo 2014.
10. Luciano Gallino. Le elezioni europee e i trattati da rifare. La Repubblica, 13 Febbraio 2014.
11. Joseph E. Stiglitz (in collaborazione con Mauro Gallegati). Se l’1% detta legge. Micromega 2013, 3: 15-34.
12. Si veda una sintesi della questione in: Democrazia Pura, L’austerità ineguale, 28 Aprile 2013.
13. Paul Krugman. L’austerity è finita KO. La dittatura dell’uno per cento. Così una minoranza impone il rigore. La Repubblica 27 Aprile 2013. Traduzione di Marzia Porta, copyright New York Times- La Repubblica.
14. Andrea Bonanni. Piano UE per condividere il debito pubblico. La Repubblica, 20 Luglio 2012.
15. Anais Ginori. Costruire l’Europa con la Cultura. Solo così si sconfigge il populismo. Intervista a Aurelie Filippetti. La Repubblica, 5 Aprile 2014.
16. Davide Colombo. Perché sarebbe un disastro uscire dall’area euro. Il sole 24 ore, 5 Febbraio 2014.
17. Le informazioni sui populismi sono tratte principalmente da: Arte.TV, La menace populiste in Europe, 18 Marzo 2014; Alain Salles, Elezioni europee 2014: la minaccia del voto di protesta, Le Monde, 7 ottobre 2013, pubblicato su Presseurop, 7 Aprile 2014 (Traduzione di Andrea De Ritis); Ufficio Documentazione e Studi dei Deputati PD, Antieuropeismo e nazional-populismo, Dossier n° 36, 16 Aprile 2014; Istituto per gli studi di politica internazionale, Gli euroscettici in Europa, 22 Marzo 2013.
18. Paolo Bellucci.The political consequences of blame attribution for the economic crisis in the 2013 italian national election. Journal of elections, public Opinion and parties, 24: 243-263, 2014.
19. Arte.TV, cit.