La politica di austerità adottata dai Paesi europei per fronteggiare l’attuale crisi economica mondiale trova le sue basi teoriche negli studi condotti negli ambienti economici statunitensi. Nel 2009 compariva un primo saggio, proveniente dal mondo accademico americano ma pubblicato dagli studiosi italiani Alberto Alesina a e Silvia Ardagna, nel quale si affermava la teoria dell’”austerità espansiva”1,2, ben presto adottata dall’Irlanda e dalla Gran Bretagna. Nel 2010 gli economisti americani Reinhart e Rogoff, sulla base di un’approfondita analisi storico-statistica, descrivevano la relazione tra un elevato rapporto debito/PIL e una bassa crescita economica. Essi stabilivano una soglia fatidica, pari al 90%, oltre la quale il debito schiaccerebbe la crescita economica3,4.
In una intervista a “Il Sole 24 ore” del 10 gennaio u.s., Ardagna ribadiva la bontà delle sue tesi: «Bisogna tagliare la spesa pubblica, in particolare quella corrente per salari ed impiego pubblico, sussidi alle imprese e trasferimenti alle famiglie, perché, come dimostra l’esperienza storica, correzioni di bilancio realizzate per la maggior parte attraverso tagli di spesa hanno maggiore probabilità di successo, riuscendo ad innescare una riduzione del debito pubblico e a generare effetti virtuosi sulla crescita…È anche l’unico modo per riottenere la fiducia dei mercati finanziari che è decisamente un fattore critico in questo momento»5.
Non sono però mancate le critiche anche da parte di ambienti scientifici qualificati. In particolare Paul Krugman, premio Nobel per l’economia 2008, di orientamento neo-keynesiano, è stato il più fiero oppositore di queste teorie. Egli ha più volte ribadito (anche in un’intervista del 27 Aprile u.s.)6 la pericolosità delle politiche di austerità ricordando che già nel 2010 il Fondo monetario internazionale aveva ri-analizzato lo studio di Alesina e Ardagna per giungere a conclusioni diametralmente opposte.
Le obiezioni alla teoria di Reinahrt e Rogoff sono ad ampio raggio. A cominciare dal fatto che lo studio presenta diversi criticità metodologiche e persino un banalissimo ma grossolano errore di calcolo dovuto ad una formula contenuta nel foglio elettronico di Excel7. A prescindere dalla rilevanza di questi errori, occorre poi sottolineare che dalla relazione debito/PIL non poteva stabilirsi un rapporto causale unidirezionale. In altri termini non è affatto scontato che sia l’elevato debito a deprimere il PIL ma il meccanismo potrebbe anche essere inverso: è la basse crescita che condiziona un aumento del debito. Ed infatti, stigmatizza Krugman, le previsioni legate alla politica di austerità non si sono realizzate come dimostra l’attuale stagnazione in Irlanda e la mancata crisi fiscale degli Stati Uniti.
Krugman va oltre le considerazioni tecniche per spiegare le ragioni per le quali, nonostante le chiare incongruenze delle teorie sull’austerità, gli ambienti economico-finanziari continuino in larga parte a seguirne le direttive. Secondo l’economista americano il fatto è che tali ambienti esprimono gli orientamenti dei ceti più abbienti (il famoso 1% della popolazione) i cui interessi in generale sarebbero certo agevolati da un economia fiorente ma che comunque riescono a trarre profitto da alcuni aspetti della depressione (ad esempio gli alti tassi di interesse dei titoli di stato). In sostanza ai ceti più abbienti non interessa quanto l’austerità peggiori la crisi se ne riescono a sopportare le conseguenze e se la crisi viene pagata da altri.
La conclusione di Krugman è coerente con l’idea che ormai il mondo è (s)governato da una sorta di dittatura dell’1%, quella quota di cittadini che già prima dell’attuale crisi mondiale era riuscita ad incrementare a dismisura la propria ricchezza. Su questa questione molto si sta spendendo Joseph E. Stglitz, anche lui premio Nobel per l’Economia, che rileva come già nel 2007 l’1% più ricco degli americani possedeva un reddito 225 volte superiore quello dell’americano medio, un valore quasi doppio a quanto registrato nel 1962 e nel 19838. Jason Hickel, antropologo che lavora presso la London School of Economy, dimostra che a livello mondiale, nel 2002, l’1% più ricco della popolazione cumulava il 40% della ricchezza totale mentre il 50% più povero ne possedeva appena l’1%9.
La successiva crisi economica ha scavato ulteriormente il solco che divide i più ricchi dai più poveri. Stiglitz sostiene già da tempo la necessità di introdurre radicali meccanismi correttivi dell’economia di mercato. Egli ritiene che “la disuguaglianza non sia il risultato di forze astratte di mercato, ma il frutto di politiche governative che formano e dirigono le forze della tecnologia e dei mercati, nonchè, in senso più ampio, della società nel suo complesso. Vi è, in questo, una nota che allo stesso tempo è di speranza e di disperazione: di speranza perché significa che questa disuguaglianza non è inevitabile, e modificando le misure politiche siamo in grado di ottenere una società più egualitaria e più efficiente; di disperazione, perché i processi politici sottostanti sono molto difficili da cambiare”10.
Stiglitz parte dall’assunzione, plausibile, che la disuguaglianza economica sia prodotta da scelte politiche ed offre quindi una risposta che non è economicistica ma politica. In particolare egli ritiene necessario che l’1% della popolazione prenda coscienza di quanto avvenuto e ponga con forza la questione della disuguaglianza economica. Recentemente di Stiglitz è stata pubblicata la traduzione italiana del suo ultimo libro11.
CDL, Tivoli, 28 Aprile 2013
1. Alberto Alesina, Silvia Ardagna. Large changes in fiscal policy: taxes versus spending. In: J. R. Brown, ed.. Tax Policy and the Economy, v. 24, ch. 2, pp. 35–68. Working paper.
2. Alberto Alesina. Tax cuts vs. “stimulus”: the evidence is in. The Wall Street Journal. Europe edition. 15 Settembre 2010.
3. Carmen M. Reinhart, Kenneth Rogoff . This time is different: eight centuries of financial folly. Working paper preliminare 2010.
4. Carmen M. Reinhart, Kenneth Rogoff . Growth in a time of debt. American Economic Review: Papers & Proceedings . 100:573-578, 2010
5. Vitaliano D’Angerio. Silvia Ardagna: Caro Kugman, con l’austerità c’è anche crescita. Il Sole 24 ore, 12 Gennaio 2013.
6. Paul Krugman. L’austerity è finita KO. La dittatura dell’uno per cento. Così una minoranza impone il rigore. La Repubblica 27 Aprile 2013. Traduzione di Marzia Porta, copyright New York Times- La Repubblica.
7. Paolo Zacchia. Il debito pubblico deprime la crescita? Il clamoroso errore di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff. Keynes blog 18 Aprile 2013.
8. Joseph E. Stiglitz (in collaborazione con Mauro Gallegati). Se l’1% detta legge. Micromega 2013, 3: 15-34.
9. Jason Hickert. A short history of neoliberalism (and how we can fix it). New Left Project. 22 Ottobre 2012.
10. Joseph E. Stiglitz, Micromega, cit.
11. Joseph E. Stiglitz. Il prezzo della disuguaglianza. Estratto. Einaudi, Torino, 2013.