Storici contemporanei e Repubblicanesimo moderno: John G. A. Pocock, Philip Pettit, Quentin Skinner, Maurizio Viroli.
L’identificazione del repubblicanesimo come tradizione storica e politica dotata di una propria individualità risale al 1975, quando viene pubblicato il saggio dello storico inglese John G. A. Pocock (1924-), professore di Storia presso la John Hopkins University di Baltimora (MD, USA). Il titolo, “The machiavellian moment. Fiorentine political throught and the atlantic republican tradition”, indicava già il contenuto del lavoro. Nel 1980 il saggio è stato tradotto e pubblicato in Italia1.
Pocock individua come peculiarità del repubblicanesimo la concezione aristotelica di Polis, intesa come comunità organizzata di individui che persegue il bene comune, con la quale pone in continuità l’idea di Res pubblica della Roma classica. All’interno di questa ideale si collocano sia la necessità di una partecipazione attiva alla vita politica che un’accezione “positiva” della legge che è funzionale all’autodeterminazione degli individui.
Tale tradizione viene recuperata nel pensiero rinascimentale fiorentino ed in particolare da Machiavelli che la rielabora alla luce delle categorie filosofiche dell’epoca tra le quali quelle di “virtù”, l’abilità di intervenire sugli eventi, e di “fortuna”, il motore casuale della storia. Così ne “Il Principe” ma soprattutto nei “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio”, Machiavelli procede a definire una concezione della Repubblica come organizzazione di uomini liberi capaci di costruire la propria storia utilizzando la virtù per dare forma alla fortuna. Una svolta epocale rispetto ad una cultura nella quale gli uomini erano considerati ostaggio di un destino imperscrutabile.
L’idea machiavelliana si diffonde nell’Inghilterra puritana della prima metà del XVI secolo quando la cultura politica inglese è ormai matura per accogliere la concezione di una partecipazione attiva dei cittadini liberandosi delle convinzioni tipiche di uno stato monarchico. Proprio in questo periodo, che è la fase del contrasto tra Carlo I ed il Parlamento che esiterà nella rivoluzione di Cromwell, inizia a coagularsi in Inghilterra un humus culturale che contesta radicalmente il principio di tradizione su cui si regge il regime assolutistico favorendo l’emergere di una coscienza civile. Nel 1656 James Harrington (1611-1677) pubblica un testo, The Commonwealth of Oceana, che costituisce il fondamento teorico della repubblica armata allora in atto e scaturita dalla guerra civile inglese. Nell’opera viene delineato un modello di società e di governo: una comunità di uomini liberi che possiedono la terra in misura relativamente uguale ed un’organizzazione nella quale gli individui sono soggetti solo ad una legge condivisa (sebbene attraverso meccanismi non sempre chiarissimi). In questo modo l’umanesimo rinascimentale fiorentino veniva introiettato nella cultura anglosassone realizzando un trapianto particolarmente fecondo. Il libro di Harrington segna infatti una revisione profonda del pensiero inglese che abbandona l’interpretazione della realtà basata su una tradizione storica in qualche modo trascendente. Il passato che legittimava la tradizione era un fondamento mitologico di cui Harrington dimostra tutta l’incertezza e la vacuità. Egli studia il processo di formazione degli Stati ed il loro funzionamento con una metodologia nuova che include l’analisi delle tecniche di potere e del rapporto indissolubile tra l’economia e la politica.
Sia in Machiavelli che in Harrington la virtù, ovvero la partecipazione attiva del cittadino, derivava da un senso di appartenenza che assumeva la caratteristica del patriottismo e da cui dipende un corollario importante: la necessità di armarsi per difendere se stessi, la proprietà, la comunità. Secondo Pocock nelle riflessioni dei rivoluzionari americani, in particolare di Thomas Jefferson (1743-1826) e James Madison (1751-1836), divenne progressivamente prevalente proprio l’idea repubblicana così come era stata introiettata nella cultura inglese. E tale processo risulterà così profondo che la rivoluzione americana può essere considerata “l’ultimo grande atto dell’umanesimo civile del Rinascimento”.
La teoria di Pocock ebbe un grande successo monopolizzando il dibattito storiografico anglosassone per diversi anni. Infatti Pocock attraverso la ricostruzione della tradizione repubblicana destrutturava in realtà un elemento portante del pensiero politico moderno, compreso quello di derivazione marxista, in base al quale la storia moderna è dettata dalla progressiva affermazione del liberalismo. Proprio a seguito delle discussioni che seguirono il lavoro di Pocock, un settore sempre più ampio di storici ha iniziato a rileggere la vicenda americana, tradizionalmente interpretata come liberale e lockiana in particolare, secondo i canoni alternativi della rivoluzione repubblicana.
Mentre la proposta di Pocock si imponeva all’attenzione generale, intanto proseguivano gli studi e gli approfondimenti dai quali, dopo un ventennio di incubazione, emergerà una teoria altrettanto compiuta del repubblicanesimo. Essa prende avvio dagli studi di Pocock ma se ne differenzia per alcuni aspetti decisivi. I saggi di riferimento compaiono nel breve volgere di un biennio. Nel 1997 esce “Republicanism. A theory of freedom and government”3 di Philip Pettit (1945-), storico irlandese che insegna presso l’Università di Princeton (NJ, USA). Nel 1998 si aggiunge “Liberty before liberalism”3 di Quentin Skinner (1940-), professore presso la Queen Mary University di Londra. Infine, nel 1999, viene alle stampe “Repubblicanesimo”4 dello storico italiano Maurizio Viroli (1952-), professore di Teoria politica presso la Princeton University (NJ, USA).
Pettit e Skinner, con una differenza di accenti che non pregiudica la sostanziale unitarietà di vedute, introducono due innovazioni decisive rispetto al paradigma di Pocock: negano l’origine aristotelica del repubblicanesimo e attribuiscono all’idea repubblicana di libertà una forma negativa comunque nettamente distinta da quella liberale. Skinner parte dalla constatazione che l’idea repubblicana è già presente e compiuta in epoca medievale ben prima del recupero completo di Aristotele attraverso l’osmosi con la cultura araba. In secondo luogo sottolinea come tale idea faccia riferimento alla Res publica della tradizione romana, sostanzialmente diversa da quella Polis greca.
Nello stesso pensiero di Machiavelli l’uomo virtuoso non corrisponde all’essere politico di Aristotele che persegue il bene comune ma all’individuo esposto alla corruzione il quale, consapevole di questo, accetta la sottomissione alla legge. La libertà repubblicana non è dunque positiva, come sostenuto da Pocock, ma una particolare forma negativa: la partecipazione dei cittadini alle vicende della Res publica non è finalisticamente legata alla realizzazione di un bene universale ma strumentalmente dovuta alla necessità di impedire la degenerazione della politica. Anche Pettit sostiene che la libertà repubblicana e quella liberale hanno ambedue forma negativa, in quanto fondate sul concetto di non interferenza, ma si distinguono nettamente l’una dall’altra proprio sulla diversa accezione che ne viene data. E la differenza è tale che, secondo Pettit, l’idea repubblicana assume una propria individualità non solo rispetto alla forma positiva comunitaria ma anche rispetto alla stessa forma negativa liberale. Se la libertà liberale assume il l’accezione di non interferenza, quella repubblicana allarga il significato all’assenza di dominio. Non è sufficiente che l’uomo sia libero da condizionamenti reali ma è fondamentale che non sia sottoposto alla minaccia di un dominio arbitrario.
Allo scopo di illustrare meglio questo concetto Pettit riporta la polemica che nell’Inghilterra del Seicento oppose Harrington ad Hobbes. Nel Leviatano, procedendo ad un confronto tra la Lucca repubblicana e la dispotica Costantinopoli, Hobbes scriveva: ”Ai nostri giorni sulla cinta delle mura della città di Lucca è incisa a caratteri cubitali la parola LIBERTAS; nondimeno non vi è alcuno che possa concludere da questo fatto che lì un singolo individuo abbia più libertà o immunità rispetto ai suoi doveri verso lo stato di quanto ve ne sia a Costantinopoli. Uno stato può essere popolare o monarchico, la libertà rimane sempre la stessa”. In questo modo Hobbes, filosofo dell’autoritarismo che utilizza strumentalmente gli argomenti liberali, intendeva concentrare l’attenzione sull’esistenza di leggi coercitive tacendo sul loro contenuto. Proprio questa strumentalità veniva stigmatizzata da Harrington nella “Repubblica di Oceana”: “La montagna ha partorito e tutto quello che rImane è un piccolo equivoco! Infatti sostenere che un cittadino di Lucca non abbia più libertà o immunità dalle leggi di Lucca che un turco da quelle di Costantinopoli, e sostenere che un cittadino di Lucca non abbia più libertà in virtù delle leggi di Lucca che un turco in virtù di quelle di Costantinopoli, significa dire due cose completamente diverse”.
Harrington concludeva che mentre i sudditi turchi erano locatari sia dei beni materiali che di quelli immateriali di cui usufruivano, i cittadini di Lucca ne erano titolari in virtù delle leggi della Repubblica. Se è consentita una digressione nell’attualità italiana si può affermare che non è affatto libero il giornalista che non subisce interferenze dal suo editore ma che può da questi essere licenziato in qualsiasi momento. “Un padrone che non interferisce rimane pur sempre un padrone e una fonte di dominio” per usare le parole di Pettit.
Pettit e Skinner concordano con Pocock per quanto riguarda il percorso successivo: il recupero della tradizione romana da parte di Machiavelli, la rielaborazione operata da Harrington, il recepimento da parte dei rivoluzionari americani.
Viroli si colloca nel solco del repubblicanesimo contribuendo con diverse osservazioni originali: il carattere maieutico delle repubbliche italiane del Trecento-Cinquecento, la continuità con l’illuminismo e Rosseau, il valore del patriottismo. Due le specificità che possono essere considerate caratterizzanti il pensiero di Viroli: la ulteriore valorizzazione del concetto di virtù, intesa come carità laica, e l’allargamento dell’orizzonte oltre le rivoluzioni americana e francese sino ad includere Mazzini nel pantheon dei pensatori repubblicani.
Su Mazzini sia consentita una digressione. Nei “Doveri dell’uomo”, il testo che meglio di altri si presta ad analizzare la sua idea di libertà, egli sembra utilizzare sia lo strumentario della libertà positiva, finalizzata alla costituzione di una comunità di uomini liberi, che quello della libertà negativa, quando passa ad illustrare la necessità di emanciparsi da qualsiasi forma di dominio. Questo pensiero filosofico sta alla base della sua azione politica graduata secondo priorità: unità della patria, indipendenza della Nazione, progresso sociale del popolo. All’idea di libertà di Mazzini è dedicata la sottosezione “Mazzini e i Doveri dell’uomo”.
CDL, Tivoli, 31 Dicembre 2012
John G. A Pocock. Il momento machiavelliano. Il pensiero fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone. I. Il pensiero politico fiorentino. II. La «repubblica» nel pensiero politico anglosassone. Il Mulino, Bologna, 1980.
2 Philip Pettit. Republicanism. A theory of freedom and government. Clarendon Press, Oxford, 1997.
Philip Pettit. Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo. Feltrinelli, Milano, 2000.
3 Quentin Skinner. Liberty before liberalism. Cambridge University Press, Cambridge, 1998.
Quentin Skinner. La libertà prima del liberalismo. Einaudi, Torino, 2001.
4 Maurizio Viroli. Repubblicanesimo. Laterza, Bari, 1999.
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