…E’ così che il neo-populismo ha potuto compiere l’ultimo segmento di un lungo itinerario assumendo infine le sembianze del grillo-leghismo.
La vittoria elettorale grillo-leghista ha dato piena espressività ad una mutazione genetica della rappresentanza politica che, occorre precisare, in Italia è il risultato di un processo di lungo corso iniziato più precocemente rispetto a quanto accaduto in altri Paesi di democrazia liberale. Un processo scandito da alcuni eventi che alternativamente hanno riguardato il quadro internazionale e quello nazionale: il rapimento Moro che segna la fine del patto politico tra i partiti che avevano dato vita alla Costituzione (1978), il crollo del muro di Berlino con la fine della guerra fredda che muta improvvisamente il contesto storico (1989), la deflagrazione di tangentopoli con la crisi esiziale dei partiti tradizionali e l’avvento della prima forma di neo-populismo, il berlusconismo (1992). A mutazione ormai già avviata è seguito più di recente l’intervento di un ulteriore fattore, l’innesco di una crisi economica mondiale senza precedenti in età moderna (2008) che ha accelerato il processo portandolo bruscamente a compimento. E cosi dal berlusconismo degli esordi siamo arrivati alla evoluzione pentaleghista.
Con la vittoria di Berlusconi nell’ormai lontano 1994, per la prima volta in una democrazia liberale si affermava uno schieramento politico ed un blocco sociale completamenti estranei a quella che era stata sino ad allora la normale dialettica politico-sociale tra una sinistra socialdemocratica ed una destra liberale. L’Italia per la verità faceva già in qualche modo eccezione. Infatti il partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, era solo in parte minima inquadrabile nel contesto di una cultura liberale conservatrice ed il principale partito di opposizione, il Partito Democratico della Sinistra, era pervenuto alla socialdemocrazia dopo un lungo percorso di revisione progressiva della originaria ideologia comunista. Tuttavia, si poteva ben dire che sino al 1994 il Paese era stato governato, pur su posizioni differenti, dai partiti che nell’immediato dopoguerra aveva stretto un patto di convivenza civile e politica codificato nei principi stabiliti dalla Costituzione Italiana (sebbene occorra sempre tener presente il fenomeno della doppia lealtà degli apparati di partito nei confronti dell’ordinamento costituzionale da una parte e del proprio referente internazionale dall’altra).
Tuttavia, come ha avuto modo di argomentare Francesco M. Biscione, una parte della società italiana era rimasta profondamente ostile alla democrazia e per lungo tempo aveva accettato la nuova condizione politica con malcelato fastidio e non solo (1). I numerosi episodi eversivi che hanno costellato la vita repubblicana, dalla vicenda De Lorenzo sino all’assassinio di Moro passando attraverso un corteo impressionante di altri tentativi di golpe e di stragi, erano la parte occulta della feroce opposizione che una parte della società italiana conduceva contro la democrazia repubblicana. Sino al rapimento Moro, la Democrazia Cristiana si era assunta l’onere di accogliere queste pulsioni eversive e di sterilizzarle: questa funzione appare evidente già nella vicenda De Lorenzo quando la DC, a fronte dei segnali ricevuti attraverso il tentativo di golpe, riterrà di dover ridimensionare la portata innovatrice della partecipazione socialista al governo del Paese stemperandone le riforme più avanzate. Con l’assassinio di Moro (1979), cessa la funzione calmieratrice della Democrazia Cristiana. Anzi alcuni dei giochi politici che si innescarono con il rapimento dello statista evidenziano che la vicenda aveva un’ampia valenza interna e veniva strumentalizzata proprio per respingere quella politica di solidarietà nazionale (1976-1979) che vedeva il PCI coinvolto nelle maggioranze di governo ed impegnato in un disegno di profonda riforma del Paese. Dopo la morte di Moro si tira ancora avanti per qualche anno ma la politica di solidarietà nazionale, di cui il politico democristiano era stato il principale ispiratore, termina inesorabilmente con l’uscita del PCI dalle maggioranze di governo (1979) e lo spostamento a destra dell’asse politico. E’ in questa fase che il PSI di Bettino Craxi si porrà come garante dei ceti moderati (e reazionari) in sostituzione di una DC priva ormai di una mente veramente strategica. Sono gli anni del pentapartito a trazione CAF (acronimo per Craxi, Andreotti, Forlani).
E così, in un clima di desolante stagnazione politica, si arriva lentissimamente ad un altro momento di svolta. Nel 1989 crolla il muro di Berlino e finisce l’epoca della guerra fredda. L’Italia perde il ruolo strategico che aveva come Paese di confine con il mondo comunista. E con il ruolo geopolitico perde anche la sua capacità di contrattazione con gli alleati americani e gli organismi internazionali (a cominciare dal fondo monetario). I partiti politici sino ad allora dominanti, in quanto pienamente coerenti con il quadro di dualismo USA-URSS, entrano in una crisi molto grave. Anche perché non sono più sostenuti dalle potenze di riferimento (il PCI per la verità già da tempo era costretto a fare a meno dell’appoggio sovietico). La crisi politica è complessa e riguarda la forma-partito nella DC e la cultura di riferimento nel PCI che di lì a breve sarà costretto a rendere visibile il processo di revisione ideologica procedendo al cambio di nome. La crisi dei partiti tradizionali apparirà in tutta la sua drammaticità con l’avvento, nel 1992, di tangentopoli. La relazione con il mutamento del quadro internazionale la si può osservare tipicamente nel caso Andreotti che per tutta la sua lunga vicenda processuale non riceverà mai il benché minimo sostegno degli alleati americani. E’ in quel momento che la parte della società italiana da sempre ostile alla democrazia e che sino ad allora aveva agito per delega, inizia ad organizzarsi in proprio. Molto difficile stabilire quanto il Piano di rinascita democratica della P2, con la rinuncia alla strategia golpista e l’adozione di una politica di infiltrazione delle istituzioni democratiche, possa aver semplicemente ispirato o veramente guidato la ristrutturazione politica della destra italiana. Un aspetto però appare singolare. Nel progetto piduista molta attenzione era dedicata all’emittenza privata.
Il successo di Berlusconi nel 1994 viene da qui. Il populismo berlusconiano, con tutta la sua carica intrinsecamente anti-istituzionale, non nasce all’improvviso e non appare dal nulla come gli Hyksos che invadono l’Egitto al termine del Medio Regno (2). In realtà Berlusconi si pone come rappresentante diretto di quella parte del Paese, non solo della classe dirigente ma anche di una parte consistente dei ceti popolari, mai pienamente convertita alla democrazia, che sino ad allora aveva agito per delega ed era stato percorso da pulsioni eversive, talora convinte, talora da interpretare alla stregua di messaggi inviati ai propri referenti politici. Naturalmente questa analisi non esaurisce la descrizione del fenomeno perché Berlusconi è molto altro. Ma è anche questo. Con Berlusconi vincono il MSI di Gianfranco Fini, erede diretto del partito fascista sebbene in fase di profonda revisione ideologica, e la Lega Nord di Umberto Bossi, un partito di destra secessionista, regionalista, fondamentalmente micro-nazionalista. Insomma nel 1994, per la prima volta in Occidente, si affermano partiti senza consolidata tradizione democratica, che rigettano la semantica antifascista e sono dichiaratamente ostili alla democrazia repubblicana definita dalla Costituzione.
Fenomeni analoghi, ma di portata ben inferiore, si potevano riscontrare anche in altri Paesi. In particolare in Francia, il Fronte Nazionale inizia a raccogliere consensi significativi ma per molti anni rimane ben lontano dalla possibilità di vincere un’elezione nazionale. A lungo l’Italia rappresenterà un’eccezione nel panorama delle democrazie liberali, nelle quali continuano ad alternarsi i partiti (di ispirazione socialdemocratica o liberale) usciti egemoni dal periodo della guerra. In qualche modo anzi si può affermare che l’Italia ha anticipato di molto la recente affermazione del neo-populismo di destra che, in Occidente, ha avuto il suo apice nella vittoria di Trump.
La crisi economica mondiale del 2008 ha fatto da detonatore perché il neo-populismo esplodesse definitivamente e si affermasse nel cuore stesso delle democrazie liberali. Come sostenuto da Tito Boeri le politiche di austerità hanno compresso lo Stato sociale contribuendo non poco ad alimentare il senso di abbandono vissuto da quella parte della popolazione che maggiormente ha sofferto la crisi (3). Inoltre la crisi economica mondiale ha dimostrato una volta per tutte la separazione che si è scavata tra politica e potere decisionale, risultato finale di un percorso iniziato con l’avvio, negli anni ’80 del secolo scorso, della globalizzazione e della deregulation di Reagan e della Thatcher. L’impotenza dei governi nel gestire la crisi ed il loro ruolo oggettivamente (talora anche soggettivamente) ancillare rispetto alla pervasiva capacità di direzione mostrata dai grandi gruppi economico-finanziari, ha finito per alimentare un revanchismo radicale non solo verso le oligarchie economiche ma anche nei confronti delle élite politiche ed intellettuali, giudicate alla stregua di complici. Inoltre, in questi anni è intervenuto un ulteriore fenomeno costituito da una migrazione epocale che ha generato l’impressione di una competizione drammatica per accedere alle risorse sempre più scarse tra i nuovi diseredati, gli immigrati, e i nuovi poveri generati dalla crisi nei Paesi di accoglienza (più precisamente questo è il messaggio che la propaganda populista riesce a diffondere con un certo successo). Infine, le ondate di terrorismo che hanno investito direttamente le democrazie liberali hanno prodotto in esse ulteriori paure ed incertezze. E così, i ceti popolari ma anche quelli medi, indeboliti dalla crisi economica, spaventati dall’immigrazione, inorriditi dal terrorismo, delusi e arrabbiati con le classi dirigenti hanno finito per chiedere rappresentanza al neo-populismo di destra che offriva loro il sogno di una mitica età dell’oro, perduta ma ancora recuperabile. In questo contesto l’Italia si è trovata maggiormente esposta rispetto ad altri Paesi per la sua fragilità strutturale, politica, economica e per la vulnerabilità geografica. Se si fa eccezione per il terrorismo, il nostro Paese ha dovuto sperimentare una maggiore severità dei fattori costitutivi della crisi: una acuzie più marcata della depressione economica, una immigrazione senza eguali in Europa, l’estrema soggezione al potere dei grandi gruppi economico-finanziari. E tutto questo è avvenuto in un Paese nel quale la rappresentanza politica aveva già acquisito in epoca berlusconiana i caratteri del neo-populismo. La concezione sacrale del popolo, l’investitura messianica del leader, l’attribuzione dei problemi interni del Paese a nemici esterni erano elementi della politica italiana già acquisiti e metabolizzati da una parte consistente dell’elettorato. Quando Berlusconi si presentava come l’unto del Signore e pretendeva di essere giudicato solo dal popolo e giammai dai magistrati o quando infilava le intemerate contro l’Europa e l’euro, rendeva visibile una modificazione della rappresentanza politica che egli aveva perseguito ed ottenuto nella profondità dell’immaginario comune utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione. In sostanza la crisi del 2008, in Italia più acuta che altrove, ha agito su un humus già molto sviluppato. E’ così che il neo-populismo ha potuto compiere l’ultimo segmento di un lungo itinerario assumendo infine le sembianze del grillo-leghismo.
CDL, 1 Ottobre 2018
- Si veda in proposito: Francesco M. Biscione. Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell’antifascismo. Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Sulla sconfitta dell’antifascismo determinata dalla vicenda Moro e sul suo significato di cesura storica, si veda dello stesso autore: Crisi dell’antifascismo e neopopulismo. Italianieuropei, 5: 198-206, 2008.
- L’immagine è tratta dal libro citato di Francesco M. Biscione.
- Tito Boeri. Populismo e Stato sociale. Bari, Laterza, 2017.