Da tempo ormai la storia orale è stata rivaluta ed il racconto è considerato un prodotto storico in sé a prescindere dalla sua veridicità. Ed anzi proprio i ricordi errati ed i racconti che ne scaturiscono sono divenuti oggetto di un’indagine storica che ha come scopo non l’accertamento dei fatti ma, elemento altrettanto importante, le modalità anche psicologiche con cui quei fatti furono vissuti dalle persone dell’epoca.
Le testimonianze ed i ricordi delle persone, a prescindere proprio dalla loro aderenza alla realtà, sono una fonte storica preziosa ma sono anche un prodotto storico perché trasmettono i sentimenti che accompagnarono gli eventi storici. Da questo punto di vista diventano essenziali per ricostruire le vicende. E sono importanti anche quando si verificano evidenti errori di memoria che comunque non sono mai casuali. Insomma una realtà senza i fatti, uno storytelling in assoluta buona fede1.
In proposito Marc Bloch parlava di psicologia collettiva come contesto culturale orientato in un certo modo che consentiva il radicamento di una storia non veritiera. E faceva diversi esempi verificatisi all’epoca della prima guerra mondiale. Di uno di questi era stato anche testimone. Un soldato tedesco catturato era divenuto, nell’immaginario collettivo, una spia insediatasi in territorio francese prima della guerra. In realtà le clamorose sconfitte iniziali patite dall’esercito francese avevano sollecitato nella mente dei soldati l’idea di una gigantesca operazione di spionaggio compiuta dai tedeschi prima dell’inizio della guerra che consentiva loro una incolmabile posizione di vantaggio.
Uno storico italiano, Alessandro Portelli, qualche anno fa ha avuto grande fortuna negli Stati Uniti pubblicando un libro di storia orale. Raccontava le vicende di Terni nell’immediato dopoguerra quando si ebbero due grandi manifestazioni, la prima contro l’adesione dell’Italia alla Nato e la seconda contro la proprietà delle acciaierie di Terni. Nel corso della prima ci furono violenti scontri tra manifestanti e polizia e un giovane rimase ucciso. Questo episodio, la morte del giovane, nei racconti degli anziani veniva invariabilmente collocato nel corso della seconda manifestazione con una omogeneità dei ricordi stupefacente se si pensa che erano errati. Proprio questo errore di memoria dimostrava però quanto per gli operai di Terni fosse importante la loro lotta sindacale e quanto poco interesse suscitassero invece le questioni internazionali.
Anni fa in un paese del Molise ascoltai personalmente alcuni anziani raccontare una vicenda di brigantaggio che non potevano aver vissuto direttamente ma che era così radicata nella memoria collettiva da essere narrata come se lo fosse. I racconti sul brigantaggio ascoltati in età infantile avevano probabilmente così impressionato il loro immaginario di bambini da convincerli che quella vicenda fosse realmente accaduta al tempo loro. E così il brigantaggio, una volta endemico in quei territori ma ormai scomparso da oltre un secolo, continuava ad operare come uno degli elementi identitari del paese ed uno degli aspetti che ne definiscono una sorta di genius loci (in compagnia dei tragici eventi successivi, l’emigrazione di massa e i due conflitti mondiali).
Marc Bloch, nel testo “La guerra e le false notizie”2, non si limita a registrare le leggende che possono scaturire dalla psicologia collettiva ma, limitatamente al contesto della prima guerra mondiale, ne individua le ragioni, le modalità di nascita, i percorsi attraverso i quali diffondono (dalle retrovie alle trincee). Così, nell’episodio del soldato tedesco scambiato per una spia, se la ragione generale era il cospirazionismo con il quale i francesi vivevano la clamorose sconfitte subite, i meccanismi risultavano molteplici: la necessità della trasmissione orale delle informazioni legata alla censura della stampa da parte del governo, la retrovia come luogo fugace di incontro che rendeva le notizie trasmissibili ma difficilmente discutibili, l’isolamento del soldato della trincea che riceva informazioni dal personale di collegamento e alle quali in mancanza di altro doveva credere per forza. E da questo punto di vista la riflessione di Bloch anticipa non solo la riscoperta della storia orale ma anche la identificazione degli spazi della sociabilità che la storiografica francese, a partire da Maurice Aghulon3, definirà molto tempo dopo. Intendendo per sociabilità le forme associative di gruppi non organizzati in classi sociali: piazza, botteghe, giochi di strada, locande, osterie, caffè e tutti gli altri luoghi nei quali si realizzava l’osmosi di ambienti sociali diversi. Tali erano anche le cucine delle retrovie dove avveniva l’incontro e lo scambio di informazioni tra personale militare (stanziale ed itinerante) e fornitori. Era lì che la notizia, anche falsa, nasceva per poi diffondersi alle trincee attraverso militari di collegamento e operai addetti alle riparazioni.
Gli strumenti della sociabilità risultano particolarmente fruibili ad analizzare realtà molto frammentate sotto il profilo sociale e poco politicizzate e consente di individuare elementi della realtà dell’epoca che sfuggirebbero a valutazioni condotte con criteri moderni ma allora certamente non operanti.
Sull’insegnamento dello storico francese e sul suo rapporto con lo storytelling e la post-verità, è sembrato utile concludere con le acute osservazioni di un amico non storico, a riprova di quanto la riflessione di Marc Bloch abbia esercitato un’influenza profonda e non limitata all’ambito specialistico4: «…In questa profonda intuizione di Bloch si può forse vedere un’eco degli insegnamenti della neonata psicologia sociale, del fenomeno sociale come “rappresentazione psichica collettiva”, secondo l’insegnamento di Durkheim. Il fatto storico pertanto non è più il nudo accadimento ma si inspessisce dell’elaborazione culturale del contesto umano nel quale si svolge. Recentemente si è tornato a parlare di questo effetto distorsivo definendolo “post verità”. Un piccolo esempio è descritto nello stesso articolo del post. Il contesto umano che elaborò l’insegnamento di Bloch volle arricchire la sua morte con un episodio che accentuasse e sottolineasse il suo eroismo: le parole di conforto al ragazzo durante l’esecuzione. Questo fatto in realtà non avvenne: non c’era nessun ragazzo tra i condannati5. Ma il fatto è l’interpretazione autentica della vita di Bloch, quella elaborata dalla Francia che risorge dopo la guerra e che vuole celebrare i suoi figli migliori».
CDL, Tivoli, 27 Maggio 2018
1. Sul rapporto tra narrazione e verità si veda la lezione magistrale di Alessandro Baricco: Alessandro Magno. Sulla narrazione. Mantova lectures, 8 Settembre 2016. Per un tentativo di sistematizzazione delle varie definizioni usate si veda: CDL. Falsità, menzogna, falsificazione, post-verità, storyteling, storia orale. Democrazia pura, 7 Marzo 2018.
2. Marc Bloch. La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921). Roma, Donzelli 2004.
3. Maurice Agulhon, Il salotto, il circolo, il caffè. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese, Donzelli, Roma, 1993. Per una definizione generale utile l’introduzione al volume: Forme di sociabilità nella storiografia francese contemporanea, a cura di G. Gemelli e M. Malatesta, Feltrinelli, Milano, 1982.
4. Federico Innocenti. Commento al post “Il patriota Marc Bloch: lo storico che amò la verità” pubblicato sul gruppo Facebook “Storia moderna e contemporanea, spunti e riflessioni” il 14 ottobre 2017.
5. Uno dei superstiti alle esecuzioni dei prigionieri nel corso delle quali rimase ucciso Marc Bloch, narra che lo stesso Bloch poco prima di morire gli avesse detto “Quel che c’è di buono è che non si ha il tempo di soffrire”. Da questo episodio scaturì la leggenda che narra come Bloch si fosse rivolto ad un ragazzo che di fronte alla morte imminente tremava di paura dicendogli “non aver paura piccolo, non fa male”. In realtà, in quella occasione, non ci fu nessun ragazzo tra i condannati. La vicenda è riportata in: Giuseppe Baiocchi. Il patriota Marc Bloch: lo storico che amò la verità. Dasandare.it, 28 Febbraio 2017.