La crisi delle democrazie liberali è la risultante di quattro fattori principali: una crisi economica sistemica che produce disuguaglianza economico-sociale con ritmo crescente, l’offensiva terroristica che ha tra i bersagli preferiti i Paesi occidentali, una migrazione epocale che aggiunge un ulteriore carico al disagio sociale, l’affermarsi definitivo di una governance sovranazionale con la traslazione del potere decisionale dal livello politico a quello finanziario. Ciascuno di questi fattori opera da un lato riducendo gli spazi di libertà ed eguaglianza e dall’altra producendo una reazione isolazionista che separa sempre più un Paese dall’altro. In una riflessione precedente (“La crisi delle democrazie liberali”)1, si concludeva: “I ceti medi e quelli popolari, impoveriti dalla crisi, scossi dal terrorismo, spaventati dalla migrazione, insofferenti verso i poteri economico-finanziari, finiscono per chiedere rappresentanza al neopopulismo di destra, il quale non offre una soluzione ma promette il ripristino di un passato mitico, quello che nel linguaggio della filosofia politica è la retrotopia o utopia retroattiva”.
Come ulteriore elemento di riflessione sulla crisi delle democrazie liberali, si consideri che la globalizzazione ha sì determinato lo stato di minorità decisionale della politica rispetto al potere finanziario ma ha anche prodotto una serie di ulteriori effetti (diretti o mediati) tra i quali un cambiamento epocale dello scenario geopolitico, la disintegrazione delle classi sociali “progressive”, un mutamento radicale della rappresentanza politica che forse proprio in Italia ha avuto la massima espressività.
Cambiamento dello scenario geopolitico
Uno degli effetti della globalizzazione è stato l’allargamento dello scenario geopolitico e lo spostamento del suo baricentro verso l’Asia. Per secoli il centro del mondo è stato il Mediterraneo da dove, con la parziale eccezione dell’impero britannico, l’Europa si irradiava attraverso gli strumenti della conquista territoriale ed economica. Poi, almeno a partire dalla prima guerra mondiale, il baricentro mondiale è stato l’Atlantico con l’alleanza USA-Europa ed il confronto con il mondo sovietico, comunque giocato in gran parte sui confini europei. Da qualche decennio la globalizzazione ha ulteriormente allargato il terreno di confronto: mentre il mondo sovietico crollava, irrompevano sulla scena mondiale una Cina e un’India fortemente competitive sul piano economico. E così oggi il centro del mondo è diventato il Pacifico con lo spostamento della linea del fronte verso l’Asia. L’Europa ha perso la sua centralità: da protagonista assoluta del sistema è divenuta co-protagonista ed infine si è ridotta a comparsa. E l’Occidente non è più lo stesso se l’Europa diventa trascurabile sotto il profilo geopolitico.
Si pensi ad esempio per quanto tempo gli Stati Uniti e il Fondo monetario internazionale siano stati indulgenti nei confronti di un Paese, l’Italia, divenuto a metà degli anni settanta assolutamente dissennato in politica economica ma che conservava grande rilevanza geopolitica per essere linea di confine con il mondo comunista. Non a caso questa indulgenza è venuta meno con il crollo del muro di Berlino. E’ da allora che siamo chiamati a pagare i nostri debiti senza sconti e dilazioni. Ma se per l’Italia la perdita di peso strategico ha avuto grandissima rilevanza, in misura minore essa ha riguardato l’intera Europa. La voce della stessa Germania è oggi meno forte rispetto a quando il Paese era decisivo nel contesto militare della Nato.
Disintegrazione delle classi sociali “progressive”
Il mercato globale ha modificato ideologicamente e strutturalmente innanzitutto la classe operaia e, in seconda battuta, la borghesia imprenditoriale “illuminata”, quella che riusciva a coniugare l’interesse privato con la responsabilità sociale. Si tratta delle due classi sociali dalle cui rivendicazioni politiche e sociali, poste sotto forma di scontro e di confronto dialettico, erano sorti gli stati liberali nazionali e poi la loro progressiva trasformazione nelle democrazie liberali di oggi.
In sostanza la globalizzazione neoliberista non solo ha spazzato via le ideologie di riferimento di queste due classi (il Welfare State come incontro tra keynesismo e socialdemocrazia) ma ne ha mutato la struttura sociologica al punto da poter affermare che borghesia imprenditoriale e classe operaia non esistono più. Al loro posto la società liquida nella quale la lassità dei rapporti è tale da dar luogo ad una frantumazione generale. Con la conseguenza che oggi non è più riconoscibile un corpus di rivendicazioni (e di valori) in grado di trainare l’intera società su assetti politici e sociali più avanzati. O meglio l’unico veramente identificabile è quello della poliarchie finanziare che governano il mondo ma che non sono intrinseche alla società collocandosene anzi ben al di fuori.
Mutamenti della rappresentanza politica
Uno degli effetti paradossali della globalizzazione è stato che la classe politica, ormai esautorata del potere decisionale, ha risposto costruendo e cercando di vendere post-verità. E questo accade non solo nei movimenti populisti ma anche nei partiti tradizionali di democrazia liberale. Basti pensare a tutti gli sforzi compiuti da Renzi per convincere l’elettorato che sotto il suo governo era iniziata la ripresa economica. In realtà il miglioramento degli indicatori economici era così impercettibile che non veniva affatto avvertito dai cittadini. Eppure Renzi, che ha indubbi tratti leaderistici, appartiene ad un partito che non è populista e rimane plurale e critico anche dopo la recente scissione. Ma ormai tutte le forze politiche tendono a sostituire la legittima attività di promozione del proprio operato con una narrazione propagandistica scarsamente aderente alla realtà. E’ pur vero comunque che questo aspetto presenta una maggiore intensità nei partiti e movimenti populisti di cui il nostro Paese è diventato una fucina particolarmente produttiva da oltre venti anni (Berlusconi e Bossi vinsero le prime elezioni nel 1994). E forse in ragione del fatto che il nostro populismo è già molto maturo esso sembra entrato in una fase evolutiva ulteriore. Infatti, se l’avvento del M5S sembra ancora collocarsi nell’alveo tradizionale del populismo, rappresenta invece un segnale nuovo l’emergere di demagoghi locali soprattutto nel Sud Italia. Luigi De Magistris, Vincenzo De Luca, Leoluca Orlando e, in buona misura, Michele Emiliano sono riusciti ad accreditarsi come riferimento di un potere legato ad un consenso strettamente personale, non solo esterno ai partiti di origine ma addirittura revanchista nei loro confronti. A ben guardare lo stesso Trump ha vinto le elezioni contro l’establishment repubblicano che lo ha fortemente e a lungo osteggiato nel corso delle primarie dalle quali però ha ottenuto un’investitura clamorosa per il grande consenso riscosso tra i militanti. Ma i masanielli locali hanno un’ulteriore peculiarità, frammentano ulteriormente la rappresentanza politica e mostrano così quanta forza dissolutrice sia intrinsecamente contenuta nel revanchismo populista. E così, sotto la spinta centrifuga dei populismi, dal tramonto dell’integrazione europea si arriva al ritorno degli Stati-Nazione e infine ai regionalismi e ai localismi. Assolutamente impotenti di fronte alla globalizzazione.
Quale Occidente
La globalizzazione ha avuto un carattere “selvaggio” per effetto della scelta di non interferire compiuta dai governi occidentali. Ma le scelte politiche si possono cambiare, sebbene non sia affatto semplice. In questo caso infatti le iniziative estemporanee di questo o quello Stato (compresa la stretta anti-delocalizzaione di Trump) non possono bastare. E’ necessaria una politica di sistema che coinvolga almeno l’insieme delle democrazie liberali.
I grandi gruppi finanziari che governano oggi il mondo sono una poliarchia composita che però, guidata dal comune interesse, si muove in un’unica direzione e su una scala di dimensione mondiale. Le democrazie liberali rispondono in modo non coordinato quando non proprio contrastante l’una rispetto all’altra ed agiscono in una dimensione locale o, tutt’al più, sovraregionale. Così rimanendo le cose, non c’è partita e la globalizzazione deregolata non potrà che continuare a produrre nuove schiavitù nei paesi emergenti e nuove servitù nelle democrazie liberali. Di qui la necessità di una Europa unita e di una sua maggiore integrazione con gli Stati Uniti. Ma questo è un altro discorso. Di là da venire. Perché implica una rinegoziazione ed una ricondivisione di valori fondanti dell’Occidente.
CDL, Tivoli, 1 Giugno 2017
1. Democrazia Pura, La crisi delle democrazie liberali, 1 Marzo 2017.