Il vento del neo-populismo soffia sulle democrazie liberali e, dopo la vittoria di Trump negli USA, è divenuto così potente da metterne seriamente in discussione i valori fondanti. Quelli senza i quali la democrazia si riduce a puro formalismo e a fatto procedurale tanto più vacuo quanto più complesso. La rappresentatività politica e tutti gli altri aspetti istituzionali perdono qualsiasi significato se non sostanziati dal rispetto concreto dei principi generali di libertà ed eguaglianza.
Il campo delle democrazie liberali si costituisce nel dopoguerra attorno ad un’alleanza militare ma si definisce sulla base dei valori di libertà ed eguaglianza cui veniva riconosciuta una funzione istituente. Nella realtà, sia pure con espressività diversa a seconda delle nazioni, il principio di libertà veniva contemperato da quello di eguaglianza attraverso l’affermazione progressiva dei diritti, sino all’inclusione di quelli di carattere economico e sociale. Questo retroterra comune è oggi esposto ad un processo complessivo di disgregazione a determinare il quale concorrono diversi fattori efficienti: una crisi economica sistemica, la nuova offensiva terroristica, l’ondata epocale di migranti, l’affermarsi definitivo di una governance sovrapolitica. Inoltre, di fronte a tali problemi, le democrazie liberali hanno prodotto risposte sempre più diversificate che hanno ampliato le differenze interne al campo occidentale compromettendone la sostanziale omogeneità di fondo. In buona sostanza le democrazie liberali annaspano in una crisi acuta che rischia di essere esiziale in assenza di una rinegoziazione e ricondivisione di valori fondanti.
La crisi economica sistemica
La crisi economica ancora in atto ha prodotto sia un ampliamento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito che un ridimensionamento dello stato sociale, compresi alcuni diritti del lavoro già acquisiti ma giudicati non più sostenibili: una inversione di tendenza epocale rispetto al trend precedente di progressiva estensione del benessere economico e della sicurezza sociale.
Per quanto riguarda la disuguaglianza di reddito una misura molto approssimativa ma altamente simbolica è rappresentata dalla ricchezza accumulata dalla metà della popolazione mondiale rispetto all’1%. Dalla figura 1, tratta dal Rapporto Oxfam 20161, emerge che ormai appena 62 miliardari cumulano la ricchezza complessivamente detenuta da 3,6 miliardi di persone. Inoltre risulta chiaro l’effetto della crisi economica che, iniziata nel 2008, ha abbattuto la ricchezza della metà più povera mentre non ha influito, se non transitoriamente, sul ritmo di crescita delle fortune miliardarie. Questo il contesto generale. Ma l’incremento della disuguaglianza socio-economica ha riguardato anche il cerchio più ristretto delle democrazie liberali. La eterogeneità nella distribuzione del reddito può essere misurata attraverso l’indice di Gini: quanto più elevato è il suo valore, tanto maggiore è la disuguaglianza economica. L’indicatore è riportato nella figura 2 relativamente ad alcuni Paesi2. In linea generale si osserva che nel periodo considerato la disuguaglianza di reddito è in crescita già prima della crisi iniziata nel 2008 che comunque tende ad accelerare il fenomeno. Da rilevare che in Italia ed in Grecia, nel periodo 1999-2008, l’indice di Gini tende a decrescere per poi subire un incremento significativo. La crisi determina un’accelerazione nella crescita della disuguaglianza anche in Francia ed in Germania.
La risposta alla crisi economica è stata diversa all’interno del campo occidentale. Il Giappone e gli Stati Uniti di Obama hanno seguito una politica espansiva, di investimento pubblico, mentre l’Europa nel suo complesso ha preferito una strategia restrittiva, basata sul contenimento del debito pubblico ed il ridimensionamento dello stato sociale (in Gran Bretagna più che negli altri Paesi). La politica dello Stato minimo inaugurata da Reagan e dalla Thatcher negli anno ’80 del Novecento è diventata un totem in Europa andando a costituire l’humus da cui è scaturita la politica di austerità. E’ ancora presto per capire quale sarà la politica di Trump ma intanto si è già allargata la divaricazione tra le due sponde dell’Atlantico con gli USA che sono usciti dalla crisi di cui erano stati l’epicentro e l’Europa che ancora annaspa confusamente nel tentativo di riemergere.
Relativamente alla sicurezza sociale occorre considerare la generale ristrutturazione dello stato sociale nei paesi dell’Occidente con, tra l’altro, una ridefinizione in senso restrittivo dei diritti del lavoro (in Italia ma non solo). Va inoltre sottolineato l’avvento di nuove forme di lavoro non adeguatamente normate. Nella gig economy (la “economia dei lavoretti” di Uber, Airnbn, Foodora ed altre organizzazioni) si stabilisce di fatto una nuova relazione nella quale il lavoratore è formalmente un libero professionista ma di fatto è strettamente controllato e governato da quelle che dovrebbero essere teoricamente solo delle piattaforme informatiche di incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Di recente un tribunale della Gran Bretagna ha riconosciuto ad un ricorrente lo status di dipendente e ancora prima negli Stati Uniti alcune sentenze erano state contrarie ad Uber. Tuttavia, affinché tali interventi possano risultare efficaci dovrebbero rientrare in un contesto di integrazione legislativa tra i i Paesi coinvolti che invece è di là da venire. Eppure sarebbe assolutamente possibile concertare meccanismi di accountability che regolino adeguatamente i grandi movimenti finanziari e le scelte economiche dei grandi gruppi. Però bisogna volerlo. E pagare il prezzo di un ridimensionamento delle prerogative nazionali.
La nuova offensiva terroristica
Da almeno quindici anni, il terrorismo ha come bersaglio non secondario le democrazie liberali (figura 3)3 ed ha prodotto risposte scomposte, mai efficaci (a partire dalle guerre di esportazione della democrazia), certamente limitative della libertà. Il Patriot Act, approvato dal Senato americano un mese dopo l’attentato dello 11 Settembre 2001 e in parte ancora oggi in vigore, è stato molto criticato negli ambienti liberal americani per il notevole ampliamento del potere di sorveglianza (e di ingerenza) delle agenzie federali. Dopo gli attentati di Parigi del Novembre 2015, il Presidente Hollande propose addirittura alcune modifiche costituzionali che favorissero il trasferimento di poteri straordinari alle autorità civili in caso di dichiarazione dello stato di urgenza (ma poi la proposta è stata accantonata). Russia e Turchia, che con le democrazie occidentali hanno stretti rapporti, già da tempo si sono avviate lungo la strada di una legislazione emergenziale dai caratteri assolutamente illiberali. Le misure anti-terrorismo volte a rafforzare il potere di sorveglianza dei corpi inquirenti hanno una duplice conseguenza. Da un lato espongono al rischio di una limitazione dei diritti civili individuali: libertà di movimento, privacy, diritto di espressione. Dall’altro tendono a isolare i diversi Paesi favorendo il riemergere di un sistema di relazioni internazionali di tipo westfaliano basato sugli Stati-Nazione. Ne risulta rallentato o bloccato ogni processo di integrazione europea e non solo. La Turchia e la Russia che non tanti anni fa sembravano avviate verso forme compiute di democrazia liberale e di integrazione con l’Europa, sull’onda delle rispettive offensive terroristiche, hanno invertito la rotta adottando legislazioni fortemente repressive e allontanando sempre più qualsiasi ipotesi di collaborazione. Anche nel cuore dell’Europa alcuni Paesi, e segnatamente l’Ungheria e la Polonia, si sono di fatto trasformate in democrazie illiberali4.
La migrazione epocale
L’ondata migratoria ha raggiunto negli ultimi anni la massima intensità, almeno verso l’Europa, senza che i Paesi della UE siano riusciti a maturare una risposta di sistema ma anzi subendone di fatto passivamente gli eventi. D’altronde un governo efficace del fenomeno presuppone una comunione di intenti ed una condivisione degli oneri che non si vedono proprio all’orizzonte. Invece si alzano i muri di fronte ad un’ondata migratoria che è di portata epocale, coinvolge milioni di persone, interessa un territorio vastissimo (figura 4) ed è impossibile da arrestare a valle.
L’immigrazione rappresenta un potente fattore di crisi. La limitatezza delle risorse da destinare alla politiche sociali, in Europa aggravata dalla strategia di riduzione del debito pubblico, pone in rotta di collisione la nuova povertà degli immigrati con quella dei ceti meno abbienti del paese ospite, pure in espansione negli ultimi decenni. I ceti marginali sotto il profilo socio-economico esprimono il proprio malessere rivolgendosi ai vari populismi di destra. Ungheria e Polonia, economie di mercato recenti e tuttora in espansione, saranno il termometro per misurare quanto le istanze di equità dei ceti meno abbienti saranno realmente accolte dai governi populisti.
Una governance sovrapolitica
La globalizzazione ha avuto come effetto il disallineamento nella capacità operativa del potere politico rispetto a quello economico-finanziario. Quest’ultimo è costituito da una poliarchia variegata che ha però interessi comuni e che quindi riesce ad operare su scala mondiale nella medesima direzione. Al contrario il potere politico è intestato a governi che hanno interessi diversi e si possono muovere solo ad un livello locale o al massimo, nel caso delle superpotenze, sovraregionale. Il risultato è che il potere decisionale è traslato definitivamente dal piano politico a quello economico-finanziario. Anche in questo caso le democrazie liberali hanno prodotto risposte deboli e contrastanti. In Europa ci si è limitati a poche sanzioni comminate per ragioni fiscali a qualche grande gruppo. Gli USA di Obama, per l’incidente nel Golfo del Messico (2010), hanno condannato la British Petroleum al pagamento di 24 milioni di dollari come risarcimento per la morte di undici persone (4,5 miliardi di dollari) e come riparazione per il disastro ecologico (19,5 miliardi di dollari). Ma ancora una volta è mancata una risposta corale, di sistema, non limitata a vicende episodiche ma in grado di affrontare complessivamente il rapporto tra rappresentanza politica e potere economico-finanziario. Una risposta di questo genere d’altronde poteva scaturire solo da una politica di cooperazione.
La fine di un’epoca?
I ceti medi e quelli popolari, impoveriti dalla crisi, scossi dal terrorismo, spaventati dalla migrazione, insofferenti verso i poteri economico-finanziari, finiscono per chiedere rappresentanza al neopopulismo di destra, il quale non offre una soluzione ma promette il ripristino di un passato mitico, quello che nel linguaggio della filosofia politica è la retrotopia o utopia retroattiva. Trump ha raccolto milioni di voti certo non proponendo un orizzonte nuovo ma suggestionando l’elettorato con il glorioso passato degli States. Analogamente in Europa i neopopulismi risultano attrattivi perché alimentano un’ossessione identitaria legata ad un passato di grandezza. Che spesso non ha fondamento reale e nel caso italiano assume persino tratti ridicoli (la triste epoca della svalutazione della lira viene enfaticamente contrabbandata come mitica età dell’oro). Se alla vittoria di Trump dovesse aggiungersi nel corso dell’anno l’affermazione del Fronte nazionale in Francia e di Afd in Germania, allora saremmo veramente di fronte ad un passaggio epocale con la creazione di un nuovo (dis)ordine mondiale. Nella figura 5 è riportata una mappa del neopopulismo di destra in Europa costruita sulla base dell’ultimo risultato elettorale di rilevanza nazionale (elezioni europee, politiche, regionali)5.
In conclusione appaiono condivisibili i timori espressi da Ezio Mauro: “finisce quel lunghissimo dopoguerra in cui la democrazia sembrava aver concluso da vincitrice la contesa con i due totalitarismi – il comunismo e il nazismo – e dunque i suoi valori sembravano ormai incontestabili, anzi universali, modello di crescita, benessere e convivenza. Il Novecento moriva finalmente con la supremazia della democrazia. Il pensiero liberale e liberal-democratico sosteneva ormai le culture di governo di una destra responsabile e di una sinistra riformista, oltre a innervare le istituzioni nazionali degli Stati moderni, gli organismi sovranazionali, le costituzioni nate dal rifiuto delle dittature e dall’incontro tra il liberalismo, il socialismo, il comunismo occidentale e la cultura politica cattolica. E’ esattamente tutto questo – una cultura che è diventata un mondo, un sistema politico, un meccanismo di governo di sistemi complessi – che rischia di andare in frantumi, sotto la spinta del trumpismo in America, del sovranismo europeo…”6.
CDL, Tivoli, 1 Marzo 2017
- Rapporto Oxfam. Un’economia per l’1%. Anno 2016.
- I dati sono tratti da: OECD, Income distribution database (IDD): Gini, poverty, income, methods and concepts, 7 Febbraio 2016. Nella figura sono tati riportati i valori dell’Italia a confronto con altri paesi di democrazia liberale ma i dati sono disponibili per tutto gli Stati aderenti all’OCSE. I valori si riferiscono al reddito disponibile ovvero decurtato dalle tasse e altre spese, la cui definizione è cambiata a partire dal 2012. Al fine di verificare l’andamento temporale di lungo termine, si è dovuto pertanto ricorrere necessariamente ai dati elaborati sino a quella data. Infine, un’ultima precisazione metodologica: l’errore standard attorno al valore medio dell’indice di Gini è intorno a 0,005
- Immagine tratta dal sito red24.
- Si veda in proposito: Democrazia Pura. La democrazia illiberale, 1 Dicembre 2015.
- Per l’inclusione dei diversi partiti e movimenti nazionali nella categoria del neopulismo di destra si veda: Democrazia Pura, Atlante del populismo europeo, 1 Settembre 2015.
- Ezio Mauro. L’Occidente che va in minoranza. La Repubblica, 1 Febbraio 2017.