C’era una volta il Nord Est. Così potrebbe iniziare la narrazione favolistica di uno dei modelli italiani più improbabili, lo sviluppo del Nord Est d’Italia. Una favola che nasce negli anni ’70, quando gran parte della nostra classe dirigente (politica, economica, intellettuale) tarda a comprendere che la congiuntura economica internazionale sta cambiando e che, tra l’altro, la spesa pubblica non può crescere indefinitamente. Solo qualche spirito avvertito aveva previsto quanto sarebbe accaduto. Già nel 1962, Ugo La Malfa, nella ormai famosa Nota aggiuntiva al bilancio dello Stato, centrata sulla necessità della programmazione economica, ammoniva su alcune conseguenze di uno sviluppo spontaneistico: “… la nostra spesa pubblica rischierebbe di essere sempre più impegnata a sostenere i maggiori «costi sociali» che derivano dall’eccessiva agglomerazione di popolazione nelle regioni altamente sviluppate e dalla necessità di provvedere, in ogni caso, al sostenimento di situazioni sempre più precarie nelle regioni meno sviluppate”1.
Gli eventi degli anni successivi confermeranno la necessità di uno sviluppo regolato e attento all’equilibrio di bilancio. In particolare lo shock petrolifero del 1973 aprirà una fase nuova nell’economia mondiale caratterizzata da un rallentamento della crescita che comprime drasticamente le possibilità di utilizzo del debito pubblico come strumento di finanziamento dell’espansione economica. Ma anche questo passa invano.
Negli anni ’70, in cambio di consenso elettorale, la classe politica italiana rinuncia definitivamente alla sua funzione guida in due ambiti fondamentali: il governo dell’economia ed il controllo dei territori. Sono gli anni dell’evasione fiscale di massa (nel Nord Est ma non solo), della erogazione a pioggia delle false pensioni di invalidità (soprattutto nel Sud), del sostegno oneroso alla grande impresa, delle assunzioni clientelari nella pubblica amministrazione, della crescita impetuosa della criminalità organizzata, delle ripetute svalutazioni della moneta (che se da un lato favorivano la competitività dell’impresa, dall’altro andavano a gravare su un debito pubblico di dimensioni crescenti).
In questo contesto nasce e si sviluppa il mito del Nord Est, un territorio nel quale la grande capacità di iniziativa individuale si somma alla totale disattenzione di una classe dirigente che in realtà non dirige. E nemmeno controlla. Ne scaturisce uno sviluppo economico prorompente e caotico che alle caratteristiche generali aggiunge alcune specificità locali. Esso è sostenuto da una galassia di aziende medio-piccole, flessibili e responsive alle esigenze dei mercati, perlopiù finanziate con un credito facile e a buon mercato, articolate in filiere di unità produttive terziste che man mano che si snodano diventano sempre più piccole sino ad arrivare alla dimensione familiare. Il resto del mondo, intanto, andava in altra direzione sulla base di una filosofia, la diversificazione degli interessi attraverso l’aggregazione di attività, che aveva l’obiettivo di rendere l’impresa meno vulnerabile rispetto alle brusche variazioni del mercato e meno esposta alle congiunture economiche sfavorevoli. Ma l’ignavia della classe politica continua: i governi nazionali e regionali a trazione forza-leghista ereditano i consensi ed i condizionamenti locali cui cedono in nome del principio pseudo-liberale del non intervento; i governi di centro-sinistra non intervengono per debolezza politica, minorità progettuale, soggezione sociale.
L’ingresso nella moneta unica europea pone fine ai privilegi di Stato. Non è più possibile caricare sul debito pubblico gli oneri delle svalutazioni cosiddette competitive e la politica fiscale di assoluta disattenzione diventa un lusso insostenibile. La crisi del 2008 fa crollare l’altro pilastro dello sviluppo del Nord Est, il credito facile.
Il Prof. Giorgio Brunetti, in un libro pubblicato di recente2 e riassunto in una intervista a “Il Venerdi di Repubblica”3, così sintetizza le ragioni della crisi: “In sostanza è andato in crisi il modello basato sulla lavorazione dei terzisti, il credito a pioggia e l’alto tasso di evasione fiscale…”. I numeri sono impietosi. Secondo l’ultimo rapporto della Fondazione Nord Est4, nel periodo 2007-2014, il PIL è crollato dello 8% (da 208 a 191 miliardi di euro), gli investimenti del 22,5%, l’occupazione del 5% (184.000 unità lavorative totali) con una punta del 25,7% nel settore edile. Sulla base dei dati forniti dalla stessa Fondazione5, almeno nel periodo 2007-2012, la contrazione del PIL è stata superiore nel Nord Est (7,2%) rispetto alla media italiana (6,9%). Che cosa rimane del modello del Nord Est? Così risponde il Prof. Brunetti nell’intervista citata: “I difetti, ovvero l’incapacità di fare sistema. Il Nord Ovest ha Milano che aggrega competenze e risorse, da noi ogni campanile procede per proprio conto. Non per nulla anni fa si propose l’istituzione di un Politecnico Veneto e non se ne fece nulla”.
Quel modello, così tanto celebrato dagli aedi della genialità nostrana, è fallito ed il Nord Est si trova a dover compiere scelte radicali. Sia consentito aggiungere ai motivi della crisi l’idea, irragionevole e frutto di una cultura imprenditoriale immatura, che la riduzione dei salari, anche attraverso la delocalizzazione, potesse abbattere il costo del lavoro a livelli competitivi con la Cina e gli altri Paesi emergenti. Anche in questo caso il resto del mondo, quello più avanzato, andava in direzione diversa per puntare su una innovazione di vasta portata e intesa in senso molto ampio. Non a caso la stessa Fondazione Nord Est, nel rapporto citato, insiste molto su alcune necessità che in buona misura richiedono un profondo rinnovamento tecnico e culturale: contaminazione dei prodotti analogici con la tecnologia digitale, adozione di un’economia di varietà e non di scala (significa puntare sulla personalizzazione dei prodotti anziché sulla quantità), l’investimento nel capitale umano (istituzione di laboratori dove si progetta e si fa esperienza sul modello dei Fab Lab americani), lo sfruttamento del valore aggiunto culturale nei prodotti tradizionali, la riscoperta del territorio e dell’ambiente, il potenziamento della capacità di attrazione dei capitali internazionali attraverso la ristrutturazione delle reti telematiche e la semplificazione burocratica. Alcune di queste innovazioni sono già in corso ma, una volta di più, si stanno realizzando in maniera spontaneistica e caotica. Manca, ancora una volta, una visione strategica complessiva.
Il jobs act, peraltro discutibile nei contenuti, rischia di diventare solo una delega in bianco offerta agli imprenditori. Le scelte sulla rete della banda larga che il Governo si accinge a compiere devono diventare il primo passo di una vera politica di sistema.
CDL, Tivoli, 1 Luglio 2015
1. Il testo originale è riportato in: Roberto Ricciuti. Stato e Mercato nella Nota aggiuntiva di La Malfa. Working paper, Università di Verona, 2013.
2. Giorgio Brunetti. Fare impresa nel Nord Est. Torino, Bollati Boringhieri, 2015.
3. Intervista di Raffaele Oriani a Giorgio Brunetti. I difetti e poco più: quel che resta del mitico Nordest tornato normale. Il Venerdì di Repubblica, 20 Marzo 2015.
4. Fondazione Nord Est. Nord Est 2015, rapporto del 29 Gennaio 2015.
5. Fondazione Nord Est. Quadro macroeconomico – Dati.