Istruzione, previdenza e salute costituiscono i tre principali settori di intervento dello Stato sociale. Con buona ragione, dunque, la sanità pubblica può essere considerata una misura sensibile del Welfare sia in senso statico (per misurarne l’intensità) che dinamico (per comprenderne le trasformazioni). Dopo la stagione dei diritti, durante la quale si è avuta un’espansione dell’assistenza sanitaria in senso universalistico, a partire dagli anni ’80 si è entrati nel ciclo della ristrutturazione efficientista che da un lato non ha inciso in maniera significativa sui costi e dall’altra sembra aver ampliato le disuguaglianze nello stato di salute delle popolazioni. Dalla riflessione che ne è scaturita comincia ad emergere l’idea che solo una politica di equità possa produrre un miglioramento dello stato di salute di entità tale da influire positivamente sulla crescita economica1.
La stagione dei diritti
Nei Paesi occidentali lo sviluppo dello Stato sociale subisce un impulso decisivo dall’espansione dei programmi di assistenza sanitaria in senso universalistico. Segnatamente in Gran Bretagna e negli USA, nascita e sviluppo del Welfare State hanno coinciso con l’introduzione di una sanità pubblica fortemente orientata in senso sociale. La riforma di tipo universalistico realizzata in Gran Bretagna nel 1948 ed i programmi di assistenza gratuita per anziani e indigenti attuati negli Stati Uniti a partire dal 1965, hanno segnato in profondità non solo la sanità di quei Paesi ma la stessa natura dello Stato sociale.
Anche nel resto d’Europa, nell’arco del trentennio 1948-1978, la sanità si evolve in senso universalistico e lo stato sociale si amplia progressivamente. A prescindere dal fatto che venisse adottato il modello Bismark, di tipo assicurativo (Francia, Germania, Belgio, Olanda, Svizzera, Giappone), o il modello Beveridge, finanziato attraverso la fiscalità generale (Gran Bretagna, Paesi scandinavi, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Italia), l’orientamento comune è stato quello di garantire a tutti l’accesso ai servizi sanitari ritenuti indispensabili2. Anche negli Stati Uniti, dove pure sino ad un anno fa l’assistenza sanitaria veniva assicurata dallo Stato federale solo alle categorie più vulnerabili sul piano socio-economico, l’investimento pubblico assumeva dimensioni di grande rilevanza raggiungendo una quota di PIL superiore a quella impegnata da altri Paesi dell’OCSE, inclusi alcuni che pure avevano adottato il sistema universalistico (Figura 1)3.
E così, nella legislazione dei Paesi occidentali, anche se non necessariamente nelle Costituzioni, il nucleo dei diritti fondamentali si è ampliato progressivamente seguendo la direttrice di una sempre maggiore uguaglianza che dagli originari diritti di libertà, passando attraverso quelli politici, si estendeva a comprendere le garanzie sociali. Alla base di questo processo vi era l’assunzione che la sanità, come l’istruzione e la previdenza, fossero aspetti della vita sociale che andavano sottratti ai meccanismi di mercato e dovessero essere garantiti dallo Stato. Rimaneva la differente natura tra i diritti di libertà (assoluti, precettivi e negativi) ed i diritti sociali (relativi, non prescrittivi e positivi)4,5 che ne determinava un diverso recepimento legislativo. La tutela della salute in particolare ne richiedeva la specificazione attraverso l’identificazione di un nucleo minimo di garanzie che dovevano essere assicurate dallo Stato (anche se non necessariamente attraverso l’intervento pubblico). Da qui, in Italia, la legislazione sui livelli essenziali di assistenza che ha tentato di definire i servizi sanitari minimi da garantire sull’intero territorio nazionale. Senza, tuttavia, riuscire ad evitare profonde disuguaglianze6.
Su un piano più ampio il diritto alla salute e la sua natura sociale trovavano consacrazione nella varie conferenze internazionali lungo l’intero trentennio, dalla Dichiarazione di Parigi del 1848 a quella di Alma Ata del 1978. Per tutto questo periodo il diritto alla salute ha rappresentato il volano utilizzato per l’edificazione dello Stato sociale.
La stagione dell’efficienza
Questo contesto entra in crisi quando la possibilità di spesa (pubblica) si riduce drammaticamente per un rallentamento della crescita economica che inizia con la crisi petrolifera del 1973 ed accelera negli anni successivi. E’ così che negli anni ’80 emerge un nuovo paradigma: il neoliberismo dello Stato minimo. Reagan e la Tatcher impongono al mondo una politica di “deregulation” dell’economia con l’obiettivo dichiarato di ridimensionare l’intervento dello Stato e di ridurre le regole al minimo. L’assunzione di base era che il mercato avrebbe determinato un’efficiente allocazione delle risorse riducendo così anche i costi.
Cessa così la fase di crescita dello Stato sociale con una tendenza al ridimensionamento che in qualche Paese, come la Gran Bretagna, ha avuto maggiore espressività coinvolgendo in primo luogo proprio la sanità. Differenziati gli effetti di questa politica sui Paesi emergenti, che ancora mancavano di una struttura assistenziale sviluppata, e su quelli di democrazia liberale, nei quali invece lo Stato sociale si trovava già ad uno stadio avanzato.
Gli organismi internazionali (Fondo monetario internazionale e Organizzazione mondiale per il commercio) imponevano ai Paesi emergenti riforme strutturali che implicavano il contenimento della spesa pubblica, la privatizzazione dei servizi, l’introduzione delle assicurazioni private. Laddove le formule neo-liberiste sono state applicate si è prodotto il fenomeno di una spesa sanitaria che gravava direttamente sulle famiglie in una misura che risultava iniqua perché a discapito degli strati più vulnerabili della popolazione.
Gli effetti equitativi delle politiche sanitarie possono essere inquadrate da diversi punti di vista. Uno dei più importanti è costituito dalla ricaduta sulla spesa familiare in termini di7:
1) Impoverimento: numero di famiglie che sono costrette a scender sotto la soglia di povertà relativa dalla necessità di sostenere direttamente alcune spese sanitarie.
2) Spesa catastrofica: pagamento diretto di prestazioni per un valore superiore al 40 % del reddito familiare non destinato al consumo di alimenti (in Italia tale reddito è misurato come CTP, capacity to pay, ovvero come differenza tra la spesa totale sostenuta e quella spesa destinata alla sussistenza e identificata con la soglia di povertà assoluta).
3) Rinuncia ovvero il fenomeno ancora più ampio delle famiglie che non volendo andare incontro ad impoverimento e spesa catastrofica rinunciano ai servizi sanitari pur avendone bisogno.
Nell’anno 2008, in Ghana e Tanzania la spesa sanitaria privata ha ridotto in povertà rispettivamente 350.000 persone (1,59% della popolazione) e 137.000 persone (0,37% della popolazione)8. Né le cose sono andate meglio in quei Paesi nei quali pure la crescita economica si è mantenuta sostenuta per lunghi anni. I sistemi sanitari sono stati orientati su un mix pubblico-privato nel quale lo Stato interviene solo a garantire le fasce di popolazione meno abbienti attraverso la copertura assicurativa (Messico) o l’accesso gratuito (Brasile, Tailandia)9. Ma in Sudafrica, uno dei Paesi nei quali maggiore è stata la crescita economica, nell’anno 2008 ben 215.000 persone (0,045% della popolazione) subivano l’impoverimento conseguente al pagamento diretto delle spese sanitarie10. In Cina, un altro Paese dallo sviluppo economico prorompente, nonostante una recente riforma che prevede un maggior intervento pubblico, non si è riusciti a contenere il fenomeno della spesa catastrofica11.
Interventi “strutturali” finalizzati al contenimento del debito pubblico, analoghi a quelli applicati nei Paesi emergenti, sono stati implementati anche in Europa. In alcuni Paesi quando è esplosa la crisi attuale, in altri anche in precedenza12. In Grecia, dove già la spesa sanitaria privata raggiungeva una quota pari al 40%, i tagli operati nel corso della crisi hanno finito per smantellare ulteriormente la componente pubblica. In Spagna una norma approvata nel 2012 esclude dall’assistenza gratuita tutti gli immigrati irregolari (ad eccezione dei casi urgenti), anche se la sua applicazione è fortemente contrastata.
La Gran Bretagna rappresenta un caso particolare perché è l’unica democrazia occidentale nella quale si è registrato un arretramento sostanziale dello Stato sociale proprio sul terreno dell’assistenza sanitaria. La riforma realizzata nel 1991 dalla Thatcher prevedeva la separazione della funzione di committenza da quella dell’erogazione dei servizi. Le autorità sanitarie locali e le associazioni dei medici di famiglia diventavano acquirenti delle prestazioni offerte da fornitori (aziende ospedaliere e territoriali) cui veniva riconosciuta un’autonomia gestionale assoluta. In questo modo si immettevano meccanismi di competizione sia tra gli acquirenti che tra gli erogatori. Ci si attendeva una riduzione dei costi che non si verificò con la conseguenza che il sistema sanitario britannico si trovò ad essere drammaticamente sottofinanziato. Nel 1999 il governo laburista di Blair dovette incrementare del 40% i fondi destinati alla sanità13.
In Italia, le riforme che si sono succedute dopo l’introduzione del sistema universalistico (1978), hanno avuto come obiettivo il contenimento della spesa sanitaria e l’efficienza dei servizi. Minore attenzione è stata dedicata alle conseguenze in termini di equità di accesso alle cure tanto che l’area dell’iniquità era già di grande ampiezza prima ancora che emergesse l’attuale crisi economica14. Nell’anno 2009, lo 1,4% delle famiglie (338.052 nuclei) erano state costrette a scendere sotto la soglia di povertà relativa dalla necessità di acquistare prestazioni sanitarie. Il 4,2% di famiglie (991.958 nuclei) avevano sostenute spese sanitarie catastrofiche. Nello 11,1% della famiglie (2.636.471 nuclei) almeno un componente aveva rinunciato al pagamento diretto di prestazioni sanitarie non potendo o non volendo affrontarne le conseguenza economiche. Nel biennio successivo gli stessi dati mostrano un generale ulteriore ampliamento di queste forme di iniquità15. Il federalismo fiscale, almeno dalle prime analisi, non sembra aver inciso significativamente sul fenomeno16.
In Italia oltretutto vi sono tuttora importanti iniquità da ulteriori punti di vista. Anche nel contesto di sistemi sanitari di tipo universalistico, si ammette che uno stato di svantaggio sociale, economico e culturale si traduce in un più basso livello di salute in quanto da una parte condiziona una maggiore esposizione ai fattori di rischio delle malattie e dall’altro determina un minore uso ed accesso alle risorse sanitarie17. Sulla base di questa assunzione, certo controversa ma fondata su evidenze empiriche e sperimentali, le disuguaglianze nei fattori socio-economici determinanti lo stato di salute sono generalmente avvertite come una delle forme più intollerabili di ingiustizia. Da questo punto di vista occorre rilevare che in Italia, come nel resto delle democrazie avanzate, il miglioramento della qualità di vita che si è realizzato nel secondo dopoguerra non ha inciso sulla disuguaglianze di salute legate ai fattori socio-economici18.
Così oggi le differenze in termini di speranza di vita alla nascita mostrano un’ampia disuguaglianza territoriale (Figura 2)19. Al Nord e al Centro si vive più a lungo e in migliori condizioni di salute rispetto al Sud. Profonde anche le disuguaglianze socio-economiche che emergono da uno dei pochi studi condotti in Italia su tale argomento (Figura 3)20. In un campione di popolazione si è potuto verificare che il rischio di morte è significativamente aumentato nelle persone con grado di istruzione inferiore (maschi e femmine), nei disoccupati, lavoratori manuali e autonomi (maschi), tra gli individui con risorse economiche scarse o insufficienti (maschi e femmine).
Un nuovo paradigma?
Nel 2008 tutte le contraddizioni del neo-liberismo esplodono in una crisi epocale che stiamo tuttora vivendo e dalla quale stentiamo a venir fuori per l’assenza di una visione alternativa che sia credibile in quanto economicamente sostenibile. Le teorie dello Stato minimo si sono rivelate fallaci ed il ruolo salvifico del mercato non si è visto. Con l’avvento del reaganismo ha prevalso una teoria, quella definita neoclassica, basata sul principio che in un regime di concorrenza perfetta la massimizzazione dell’utilità individuale si traduce in ottimizzazione dell’utilità sociale21. La realtà si è incaricata di dimostrare che anche e soprattutto in ambito sanitario intervengono potenti fattori di distorsione che alterano profondamente la corretta dinamica concorrenziale (in particolare l’asimmetria informativa)22.
I meccanismi di distorsione hanno reso alquanto aleatoria la massimizzazione dell’utilità sociale e in sostanza la politica dell’efficienza, sia nei Paesi che impegnavano più risorse che in quelli che ne utilizzavano meno, non ha nemmeno ridotto la spesa sanitaria pubblica (Figura 4)23. Al massimo ha contribuito a rallentarne la crescita come sembra essere accaduto in Italia ma solo negli ultimi anni (Figura 5). Si è visto che il prezzo pagato in termini di equità è stato alto. Di fronte a queste evidenze è iniziata una profonda riflessione sulla direzione che l’assistenza sanitaria dovrebbe assumere.
Una certa attenzione è stata dedicata al rapporto tra stato di salute e crescita economica24. Rapporto che è evidentemente bidirezionale: da un lato un reddito più elevato sembra garantire uno stato di salute migliore; dall’altro un migliore stato di salute aumenta il livello del capitale umano ed incrementa la produttività con importanti riflessi positivi sia sul PIL pro-capite che sul PIL globale. Per lungo tempo, come riflesso di una cultura sensibile al “sociale”, si è studiato solo il primo aspetto mentre già a partire dai primi anni 2000, in conseguenza di un approccio più sensibile alla sostenibilità economica dei sistemi, si è iniziato ad analizzare anche il secondo. Oggi è opinione diffusa che la correzione dei fattori che generano ineguaglianze di salute sia necessaria non solo allo scopo di eliminare forme intollerabili di ingiustizia sociale ma anche al fine di promuovere una maggiore crescita economica. In altri termini molti giudicano ormai ineludibile, proprio dal punto di vista economico, l’adozione di politiche sanitarie ispirate ai criteri dell’equità intesa sia in senso orizzontale (eguali livelli di assistenza a popolazioni che hanno eguali bisogni) che in senso verticale (assistenza diversa a popolazioni che hanno bisogni diversi )25.
Queste tematiche, nelle quali la questione dei diritti si mescola a quella economica, non sono certo estranee alla decisione del governo americano di varare una riforma sanitaria di grande portata. Voluta da Obama nel 2010 ed entrata in vigore nel 2014, la riforma è considerata il segno inequivocabile della volontà del governo americano di riprendere la strada di programmi di assistenza finalizzati alla correzione delle profonde disuguaglianze sociali che caratterizzano tuttora la società statunitense. Già a distanza di pochi mesi, si è registrata una riduzione importante della proporzione di cittadini privi di assicurazione sanitaria, in particolare negli strati socialmente più vulnerabili26. La svolta epocale voluta da Obama ha spinto alcuni osservatori a prevedere addirittura un inevitabile futuro socialdemocratico dell’America27.
A prescindere dalle etichette (a giudizio dell’autore Obama si colloca pienamente nella tradizione americana democratica e liberal), non c’è dubbio che oggi gli Stati Uniti sembrano aver assunto la leadership mondiale di una politica di espansione dello stato sociale che investe anche l’ambito sanitario. E questo perchè proprio negli USA si vanno affermando approcci nuovi alla questione dell’assistenza sanitaria. Si è detto che nel secondo dopoguerra, nel periodo che va dal 1948 al 1978, l’estensione in senso universalistico dell’assistenza sanitaria era legata al principio che la tutela della salute fosse un diritto che lo Stato doveva garantire. Oggi, un ulteriore sviluppo appare in qualche modo legato all’aspetto complementare del dovere che caratterizza il diritto alla salute. Nel 2012 la Corte Suprema americana ha rigettato il ricorso contro la riforma sanitaria di Obama che era stato proposto da ben 26 Stati americani sulla base del principio che i cittadini non potevano essere obbligati a comprare un’assicurazione. La Corte Suprema, pure a maggioranza conservatrice, ha respinto il ricorso ritenendo che la salute è un diritto-dovere e non un bene di consumo.
Ulteriori studi sono necessari per precisare meglio l’impatto della sequenza causale: eliminazione delle iniquità, miglioramento dello stato di salute, crescita economica. Se tale impatto dovesse rivelarsi “redditizio”, allora tutta la politica sanitaria dovrebbe essere rivista alla luce di un nuovo paradigma. Investire risorse sulla sanità pubblica potrebbe rivelarsi particolarmente conveniente. Sempre che la politica sia capace di strategie di lungo termine e non si impantani nelle tattiche di corto respiro.
CDL, Tivoli, 15 Marzo 2015
1. La trattazione che segue non riguarda lo stato di salute globale delle popolazioni che, comunque misurato, è cresciuto nel secondo dopoguerra sia nei Paesi avanzati che in quelli oggi emergenti che in quelli considerati ancora arretrati. Peraltro in questo ambito occorre sempre tener conto che le misurazioni medie (aspettativa di vita, tassi di mortalità, ecc.) possono mascherare un’ampia variabilità nella quale si annidano vere e proprie ingiustizie sociali. Inoltre la salute globale non dipende solo dall’assistenza sanitaria in senso stretto ma da ulteriori decisivi fattori come lo stile di vita, l’alimentazione, l’ambiente. L’articolo invece affronta due questioni, disuguaglianza e costi, rispettivamente legate all’efficacia e alla sostenibilità dei sistemi di assistenza sanitaria.
2. Maciocco G (2013). Il cammino dei sistemi sanitari tra universalismo e neoliberismo. Il caso Inghilterra. Tendenze Nuove, 6: doi:10.1450/75608.
3. OECD (2013). Health at a glance 2013: OECD indicators, OECD Publishing. Gli indicatori sullo stato di salute sono riportati anche nella sezione Compare your country del sito dello OECD.
4. Bottari C (2011). Il diritto “fondamentale” alla tutela della salute. In: Tutela della salute ed organizzazione sanitaria, pp. 13-26. Torino, Giappichelli.
5. Gambino S (2012). I diritti sociali fra costituzioni nazionali e costituzionalismo europeo. Studi sull’integrazione europea, anno VII, n. 2-3, 2012.
6. Clerico G (2012). Salute, equità, benessere. Tendenze nuove 1-2: 9.45. doi:10.1450/36451.
7. Federico Spandonaro, a cura di (2013). IX Rapporto Sanità CEIS. Crisi economica e sanità: come cambiare le politiche pubbliche. Roma, Health communication, 2013.
8. Riva G (2012). L’equità nel finanziamento e nell’utilizzo dei servizi sanitari in Africa. In: Salute Internazionale.info, 26 Luglio 2012.
9. Maciocco G (2013), cit.
10. Riva G (2012), cit.
11. Maciocco G (2013), cit.
12. Maciocco G (2013), cit.
13. Maciocco G (2013), cit.
14. CEIS (2009). Rapporto Sanità 2009. Roma, Health communication, 2010.
15. Spandonaro F, a cura di (2013), cit.
16. Citoni G, Solipaca A (2007). La privatizzazione strisciante della sanità italiana: un’analisi descrittiva e alcuni temi equitativi. Politiche Sanitarie, 8: 288-205.
17. Clerico G (2012), cit.
18. Della Bella S. Disuguaglianze sociali nella salute in Italia: un’analisi dinamica usando dati ECHP. Polis 28: 419-448, 2013.
19. ISTAT (2014). Il benessere equo e sostenibile in Italia. Anno 2014.
20. Istat. Determinanti socioeconomici. 2009.
21. Levaggi R, Capri S (2005). Introduzione. In Levaggi R, Capri S, Economia Sanitaria, Milano, FrancoAngeli, 9-23.
22. Per una trattazione più ampia dell’argomento si veda: Democrazia Pura, Equità dell’assistenza sanitaria in Italia, 22 Ottobre 2013. In breve l’asimmetria informativa consiste nel vantaggio di conoscenze che favorisce l’erogatore della prestazione a discapito dell’acquirente (nel caso italiano le Asl). Infatti, lo stato clinico del malato che richiede una prestazione è noto solo all’erogatore che si trova così nella condizione di poter selezionare patologie e pazienti sulla base del vantaggio economico. Tale fenomeno, che in economia sanitaria assume la denominazione di scrematura di mercato (cream skimming), penalizza i pazienti più “costosi” ovvero quelli più anziani e quelli maggiormente gravati da patologie associate la cui gestione è molto più onerosa a fronte di un rimborso che è sempre lo stesso. La Asl acquirente invece si trova a dover pagare la prestazione richiesta dal proprio assistito che l’erogatore ha scelto di trattare potendo operare solo un controllo a posteriori peraltro piuttosto blando.
23. OECD (2014). OECD Stat extracts 2014.
24. Clerico G (2012), cit.
25. Per una rassegna sulle dimensioni dell’equità si veda: Masseria C. I determinanti delle disuguaglianze di salute: una rassegna di letteratura. In: L’equità nell’accesso alle cure sanitarie: prime stime e confronti interregionali, a cura di Giannoni M, Rabito G, Masseria C, Le Monografie, 2007, Vol. 6, pp 7-23, Programmazione Socio-Sanitaria, dell’assistenza di base ed ospedaliera e Osservatorio Epidemiologico Regionale dell’Umbria.
26. Jeanna Levy (2014). In U.S., Uninsured Rate Lowest Since 2008. Uninsured rate declines most among blacks and lower-income Americans. Gallup Ewll-Being, 7 Aprile 2014.
27. Lane Kenworthy (2014). America’s Social Democratic Future. Foreign Affairs, January/February 2014.