L’attuale fase politica, contrassegnata dall’affermazione elettorale del movimento 5 stelle, è uno di quei momenti in cui riemerge con forza la tesi sul superamento della distinzione tra destra e sinistra. Accade periodicamente che questa tesi riaffiori. A partire dalla prima affermazione che viene attribuita a Jean Paul Sartre. In Italia questa idea ha perso il carattere ciclico ed è diventata endemica da quando, in rapida successione, oltre 20 anni fa, si è avuta prima la crisi ideologica del marxismo e poi la crisi della forma-partito cattolica.
Il trionfo elettorale del movimento 5 stelle sembra andare in questo senso ed anzi appare come l’’approdo finale di un lungo processo. In fondo il successo di Grillo è legato al fatto che il Partito Democratico non ha assolto alla “mission” per cui era sorto e che era proprio quella di risolvere la crisi ideologica e politica sotto la quale era crollata la prima repubblica. Si aggiunga la crisi di una destra populista, quella di Berlusconi e Bossi, ormai al termine del ciclo.
Ma è proprio così? Veramente la destra e la sinistra non esistono più? Certamente il lessico politico del movimento 5 stelle sfugge a questi concetti o, meglio, ne fa un uso così indifferenziato da renderli vacui. Anche sotto il profilo della semantica politica Grillo sembra utilizzare indifferentemente ispirazioni di destra e di sinistra. Ha potuto farlo perchè, sinora, non ha avuto la necessità di saldare il tutto in una proposta di governo.
E’ certamente vero che nelle democrazie occidentali non è sempre riconoscibile una chiara connotazione di destra o di sinistra. E’ così per il contesto costituzionale, di tipo liberal-democratico, che definisce il perimetro del confronto politico. E’ così, forse, anche per l’agibilità della vita politica: senza la partecipazione dei cittadini anche le istituzioni democratiche si riducono a mero esercizio di potere. In questo senso, se la proposta del movimento 5 stelle è il recupero della partecipazione e della vigilanza da parte dei cittadini, allora veramente essa non è né di destra né di sinistra.
Quando però si passa all’azione di governo, le scelte assumono inevitabilmente una connotazione. Chi deve pagare la crisi? Come distribuire il reddito? Su quale leva puntare per uscire dalla crisi attuale: sul bisogno, sulla domanda o sull’offerta? Le risposte acquisiscono necessariamente un’accezione di destra o di sinistra, al di là della consapevolezza di chi le pronuncia.
La caduta delle ideologie del Novecento non giustifica l’affermazione che le concezioni di destra e di sinistra non bastano più a definire l’intero universo politico. Il pensiero occidentale è molto più largo delle ideologie: la sinistra non si esaurisce affatto nel comunismo e la destra non si identifica con il fascismo. Ed anzi gli estremismi, di destra e di sinistra, non appartengono alla civiltà occidentale come essa si definisce a partire dal processo di Norimberga. E’ pur vero che nella complessità della società moderna non si può affermare che tutto ciò che non è di sinistra allora è di destra e viceversa. Esiste tra i due poli un filo di continuità che è il risultato del loro rapporto dialettico (che presuppone una composizione) e non necessariamente dualistico (che implica una irriducibilità). Tutto lo spazio politico, sebbene articolato, può pertanto essere ricompreso nelle due categorie: prevalentemente di destra o prevalentemente di sinistra.
Sulla definizione di destra e sinistra, la lezione di Norberto Bobbio è ancora insuperata1. In una concezione di sinistra: tutti gli uomini nascono uguali; diventano disuguali per le diverse condizioni socio-economiche cui sono sottoposti; bisogna operare per correggere le disuguaglianze in nome della giustizia sociale. In una concezione di destra: tutti gli uomini nascono disuguali; le differenze non sono sociali ma naturali e non devono essere annullate ma anzi valorizzate in nome della libertà e del progresso.
Queste l’analisi di Bobbio sulla funzione discriminante del concetto di uguaglianza:
“Tra gli uomini tanto l’eguaglianza quanto la diseguaglianza sono fattualmente vere, perché le une e le altre sono confermate da prove empiriche irrefutabili. Ma l’apparente contraddittorietà delle due proposizioni «Gli uomini sono eguali» e «Gli uomini sono diseguali» dipende unicamente dal fatto che, nell’osservarli, nel giudicarli e nel trarre conseguenze pratiche, si metta l’accento su ciò che hanno in comune o piuttosto su ciò che li distingue. Ebbene, si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali quanto diseguali, apprezzano maggiormente e ritengono più importante per una buona convivenza ciò che li accomuna; inegualitari, al contrario, coloro che, partendo dallo stesso giudizio di fatto, apprezzano e ritengono più importante, per attuare una buona convivenza, la loro diversità. Si tratta di un contrasto tra scelte ultime di cui è difficile sapere quale sia l’origine profonda. Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che riesce, a mio parere, meglio di ogni altro criterio a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra. Da un lato vi sono coloro che ritengono che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall’altro coloro che ritengono siano più diseguali che uguali.
A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale ed eguaglianza-diseguaglianza sociale. L’egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l’inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili. Il movimento femminista è stato un movimento egualitario. La forza del movimento è dipesa anche dal fatto che uno dei suoi temi preferiti è sempre stato, indipendentemente dalla veridicità fattuale, che le diseguaglianze fra uomo e donna, pur avendo radici nella natura, sono state i l prodotto di costumi, leggi, imposizioni del più forte sul più debole, e sono socialmente modificabili. Si manifesta in questo ulteriore contrasto il cosiddetto «artificialismo», che viene considerato una delle caratteristiche della sinistra. La destra è più disposta ad accettare ciò che è naturale, e quella seconda natura che è la consuetudine, la tradizione, la forza del passato. L’artificialismo della sinistra non si arrende neppure di fronte alle palesi diseguaglianze naturali, a quelle che non possono essere attribuite alla società: si pensi alla liberazione dei matti dal manicomio. Accanto alla natura matrigna c’è anche la società matrigna. Ma da sinistra si è generalmente propensi a ritenere che l’uomo sia capace di correggere tanto l’una che l’altra.”
Bobbio passa poi ad analizzare il concetto di libertà ammettendo che esso possa confliggere con quello di uguaglianza. In particolare egli riteneva che quanto più l’egualitarismo sociale si estende tanto più la libertà individuale tende a restringersi e viceversa. Tuttavia riteneva anche che il concetto di libertà non fosse discriminante per distinguere la destra dalla sinistra ma, all’interno dei due schieramenti, la componente autoritaria da quella moderata.
“ … si può ripartire schematicamente lo spettro in cui si collocano dottrine e movimenti politici, in queste quattro parti:
a) all’estrema sinistra stanno i movimenti insieme egualitari e autoritari, di cui l’esempio storico più importante, tanto da essere diventato un’astratta categoria applicabile, ed effettivamente applicata, a periodi e situazioni storiche diverse, è i l giacobinismo;
b) al centro-sinistra, dottrine e movimenti insieme egualitari e libertari, per i quali potremmo oggi usare l’espressione «socialismo liberale», per comprendervi tutti i partiti socialdemocratici, pur nelle loro diverse prassi politiche;
c) al centro-destra, dottrine e movimenti insieme libertari e inegualitari, entro cui rientrano i partiti conservatori, che si distinguono dalle destre reazionarie per la loro fedeltà al metodo democratico, ma, rispetto all’ideale di uguaglianza, si attestano e si arrestano sull’eguaglianza di fronte alla legge, che implica unicamente il dovere da parte del giudice di applicare imparzialmente le leggi e sull’eguale libertà, che caratterizza quello che ho chiamato l’egualitarismo minimo;
d) all’estrema destra, dottrine e movimenti antiliberali e antiegualitari, di cui credo sia superfluo indicare esempi storici ben noti come il fascismo e i l nazismo.”
Il conflitto che può scaturire dalla relazione tra libertà ed uguaglianza trova infine una conciliazione nel principio di “trattare gli eguali in modo eguale ed i diseguali in modo diseguale”. Ma questa affermazione deve essere riempita di contenuti. Si pensi a quello che può significare nell’ambito di una politica di distribuzione delle risorse. Sotto questo aspetto l’eguaglianza assume l’accezione di equità e può essere intesa in senso verticale (trasferimento diverso a popolazioni che hanno bisogni diversi ) o in senso orizzontale (trasferimento eguale a popolazioni che hanno eguali bisogni). Una politica di questo genere ha innanzitutto la necessità di individuare i bisogni che spesso rimangono sommersi proprio nell’ambito delle fasce più deboli della popolazione che per ragioni culturali e sociali hanno difficoltà ad esprimerli e a farli valere.
Nel passaggio dall’affermazione di principio alla realizzazione pratica, il concetto di eguaglianza deve essere definito anche sotto altri aspetti. Ad esempio, gli extra-comunitari sono uguali a noi? Hanno gli stessi nostri diritti? E quali? Così se il riconoscimento dei diritti civili è in linea teorica un fatto ormai acquisito nelle democrazie occidentali a prescindere dagli orientamenti politici, la distinzione tra destra e sinistra ritorna proprio sull’ampiezza della platea cui essi debbano essere riconosciuti. Un’ulteriore differenza rimane sul riconoscimento dei diritti sociali della stessa comunità autoctona sui quali rimangono operanti diverse sensibilità. In sostanza, estensione dei diritti civili e riconoscimento di quelli sociali sono il terreno nel quale la distinzione tra destra e sinistra è ancora chiaramente riconoscibile.
Mai come nella crisi attuale la questione dell’eguaglianza appare attuale. In una congiuntura economica espansiva la ricchezza può essere re-distribuita in maniera disuguale ma in misura comunque sufficiente a garantire i bisogni di tutti. Ma in un ciclo economico sfavorevole, tanto più se esso raggiunge l’acuzie attuale, la scelta sulla redistribuzione delle risorse diventa decisiva ai fini della stessa sopravvivenza della comunità. Come uscire dalla crisi di oggi? Bisogna incentivare l’offerta (le imprese) oppure bisogna tutelare i bisogni (il reddito e l’occupazione)? La scarsità di risorse non permette di intervenire in misura sufficiente su ambedue i fronti. Bisogna compiere una scelta. Di destra o di sinistra. Una scelta certo non facile. Nell’ambito della stessa sinistra la risposta alla crisi appare decisamente tormentata con il dibattito che oscilla tra un’impostazione moderata, al meglio rappresentata dall’economista laburista Antony Giddens2, ed un approccio decisamente radicale, di cui è divenuto fautore Joseph E. Stiglitz3, premio nobel per l’economia nel 2001, già vicepresidente della Banca Mondiale, molto vicino ad Occupy Wall Street, autore di un libro pubblicato in Italia qualche giorno fa3.
10 Marzo 2013
1. Norberto Bobbio. Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica. Donzelli, Roma, 1999.
2. Antony Giddens. Destra e sinistra esistono ancora. La Repubblica, 15 Gennaio 2013.
3. Joseph E. Stiglitz. Il prezzo della disuguaglianza. Estratto. Einaudi, Torino, 2013.