Luigi Mascilli Migliorini è uno storico docente di Storia del Mediterraneo moderno e contemporaneo e di Storia moderna presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, autore di molti testi in particolare del periodo Napoleonico e della storia d’Italia nel XIX secolo, nonchè , insieme ad altri di una “Storia del mondo dall’ anno mille ai giorni nostri” che cerca di superare il tradizionale approccio eurocentrico.
Ospite spesso di trasmissioni televisive , è solito citare come occasione mancata del Risorgimento il progetto di “Assemblea costituente italiana “, sorto dopo la spedizione dei mille in ambienti Garibaldini e Mazziniani e rifiutato subito da Cavour e Vittorio Emanuele II.
Nel suo recentissimo “11 maggio 1860” (editori La Terza 2023) Mascilli Migliorini riprende il tema a conclusione del suo racconto sull’ impresa di Garibaldi.
Il racconto della preparazione e dello sbarco è scritto con uno stile molto narrativo, chi si aspettava un saggio potrebbe essere un pò deluso.
Nell’ultimo capitolo Migliorini riprende un tono decisamente saggistico, provo a riassumere qui di seguito le pagine 168 172 dove viene affrontato l’argomento, in corsivo il testo originale.
Mascilli Migliorini parte dall’osservazione che “l’impresa dei Mille si era proposta sin dal suo inizio l’obiettivo di riequilibrare un rapporto tra le correnti convintamente democratiche, quando non francamente repubblicane, del movimento patriottico e quelle di ispirazione liberale, moderate e dichiaratamente monarchiche.” Ma aver rinunciato con il grido con “Italia e Vittorio Emanuele” ad un impostazione pregiudiziale repubblicana non significava, per lo stesso Garibaldi rinunciare alla “pregiudiziale democratica”; in altre parole non limitarsi a cacciare dalla Penisola i governi stranieri e le dinastie sostanzialmente ancora espressione dell’Antico Regime ma riversare in senso istituzionale e politico nelle varie parti d’Italia che il movimento democratico riconosceva diverse e diversificate il nucleo dell’ eredità della rivoluzione europea conclusa qualche decennio prima.
Lo stesso Mazzini arrivato a Napoli “si era mostrato disposto ad accantonare ogni immediata idea di repubblica se questo avesse facilitato la formazione di un’Assemblea Costituente, destinata a dare al nuovo Regno una Carta che non fosse espressione – come lo Statuto Albertino – di una stagione, di una cultura, di un ceto e di una dinastia che rappresentavano non la sintesi, ma una delle parti che ad essa avevano concorso. La sintesi poteva riposare solo in una Costituzione approvata dal popolo italiano, al quale, al contrario, vennero progressivamente offerti solo plebisciti di annessione al Regno sabaudo e al suo sovrano.”
D’altra parte Migliorini concorda con Osserva con Rosario Romeo che “Cavour non avrebbe potuto accettare questa diversa Italia, nata ‘d’un getto’ dalla iniziativa popolare e fondata dunque sul nuovo patto nazionale stipulato dalla costituente e non sullo Statuto, senza rinunciare a quell’Italia borghese e moderata, fondata sul liberalismo economico e sul gradualismo politico, alla quale egli e gran parte delle forze sociali e della cultura più moderna del paese avevano aspirato per decenni”. Avuta la certezza che la forma Monarchica non era in discussione Cavour si rifiutò di seguire, Mazzini e Garibaldi sul terreno dell’Assemblea costituente.
L’abbandono di questa strada, continua l’autore, comportò alti costi, con un sistema parlamentare molto fragile, che non resse all’avvento del fascismo. Fu dato un “come patto fondativo di una nazione del tutto nuova e assai complessa uno Statuto, quello voluto da Carlo Alberto nel 1848 ispirandosi alle esperienze della Charte borbonica e della Costituzione di Luigi Filippo dopo la rivoluzione liberale del 1830, sostanzialmente octroyé, concesso e non discusso, chiaramente improntato al pensiero politico più cauto della Restaurazione europea”.
D’altra parte, anche dal punto di politico e amministrativo, la scelta di una soluzione accentrata secondo il modello napoleonico, rifiutando ogni ipotesi di federalismo o di decentramento, non teneva conto della realtà plurima e differenziata dell’Italia.” Tutta la legislazione sulle autonomie comunali e provinciali, tutta la legislazione in materia scolastica e di pubblica sicurezza, nonché tutta la codificazione penale e civile, adottate in via provvisoria dal Regno di Sardegna tra l’ottobre e il novembre del 1859, nel vivo ancora delle emergenze militari e diplomatiche di quella fase del processo unitario, estensione, dunque, in larghissima parte ai nuovi territori annessi della normativa piemontese, finirono col diventare la camicia di forza ordinativa nella quale venne stretto lo Stato unitario.”
Simbolo di come si trattasse più di annessione al vecchio Piemonte e non di creazione di uno stato nuovo, fu la prosecuzione della numerazione del Parlamento (la legislatura che salutò la nascita dell’Italia unita fu, così, non la prima, ma la settima) e la titolazione della numerazione del Sovrano (Vittorio Emanuele è secondo nella successione sabauda e non diventa primo come re d’Italia).
Mascilli Migliorini si concentra sulla volontà espressa da Vittorio Emanuele di puntare su “la via della continuità dinastica e l’espunzione da sé di ogni imbarazzante contiguità con le spinte alla trasformazione politica e sociale. “In Italia io so che chiudo l’era delle rivoluzioni”: Vittorio Emanuele lo aveva scritto, un mese prima, all’indomani della battaglia del Volturno, in un Proclama ai Popoli dell’Italia meridionale destinato a preparare il suo arrivo nel Mezzogiorno. Sapeva bene che il processo di unificazione nazionale era stato anche un ininterrotto ciclo di rivoluzioni che, a partire da quelle cosiddette “giacobine” degli ultimi anni del secolo precedente, avevano mantenuto vivo – come non era accaduto e non accadeva in nessun paese europeo, Francia, forse, esclusa – lo spirito vitale e contraddittorio dell’Ottantanove. Ma quella possibilità di racconto, che la storia offriva, non poteva avere spazio nel racconto della nazione unita. Il Risorgimento non era – nemmeno per frammenti sparsi – una parte della Rivoluzione francese, non era nato da essa e da essa, anzi, si era tenuto sempre (lo spiegherà di lì a qualche anno Alessandro Manzoni nel suo celebre La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859) distante”
Se l’impresa dei mille aveva rappresentato uno dei massimi punti di contatto e collaborazione fra le due grandi famiglie politiche che avevano caratterizzato il nostro risorgimento , quella moderata e quella democratica , la scelta di continuità di Vittorio Emanuele e Cavour ne determinò la frattura, come efficacemente esternò in Parlamento Francesco Crispi, prima della sua conversione monarchica “Credete voi – chiedeva l’antico garibaldino agli uomini della Destra al governo – che noi tutti, associandoci a voi, facendo col Principe l’unità nazionale, credete che noi pensammo farla a dispetto della libertà? Vi ingannate. Credete voi che il popolo italiano, associandosi a noi, abbia fatto questa unità perché sia il monopolio di una classe, perché sia sfruttata da pochi e non sia beneficio di tutti? Vi ingannate”.
D’altra parte Mascilli Migliorini ricorda che i prodromi del risorgimento nacquero proprio dal Sud, nella Repubblica Napoletana del 1799 e nel seguito che ebbe il disperato tentativo di Murat. Il rifiuto di convocare un’Assemblea Costituente all’indomani della raggiunta unificazione territoriale e politica apparve, dunque, non solo come il sacrificio di una parte – quella democratica – soccombente, ma anche come il prevalere di una metà del nuovo Stato sull’altra e questo ancor prima che la “piemontesizzazione” rivelasse, negli anni successivi, la difficoltà della classe dirigente unitaria ad armonizzare le differenti componenti territoriali e sociali della penisola e, soprattutto, a definire in termini accettabili la relazione tra Nord e Sud del paese.
Marco Capodaglio