LE TRE ELEZIONI DI MAZZINI AL PARLAMENTO ITALIANO

LE TRE ELEZIONI DI MAZZINI AL PARLAMENTO ITALIANO

Mazzini fu eletto subito dopo l’unità e prima della conquista di Roma tre volte al Parlamento italiano, nel collegio di Messina, ma non vi sedette mai. I libri di storia normalmente fanno un rapido accenno alla vicenda.

Denis Mack Smith (1) accenna brevemente che “Mazzini, eletto ripetutamente, fu altrettante volte privato del suo seggio in parlamento, dato che pendeva sul suo capo la condanna alla pena capitale, e ritornò pertanto alla sterile intransigenza repubblicana.”

Fortunatamente ci sono fonti che permettono una comprensione più articolata dell’episodio

Una prima è ovviamente “Vita di Giuseppe Mazzini” di Lessie White Mario, donna eccezionale, la cui vita si intreccia con quella delle principali figure del nostro risorgimento (2). Le tre consecutive elezioni di Mazzini sono narrate nel capitolo 26 della biografia dell’Apostolo e in fondo riportiamo l’intero brano in proposito.

Vorremo sottolineare solo qualche punto: le due “bocciature” dell’elezione di Mazzini spaccarono il parlamento e con la “sinistra” parlamentare schierata per l’approvazione della elezione di Mazzini. Nella seconda l’“ostracismo” voluto dal governo sabaudo prevalse solo di un voto (3)

Nelle due lettere con cui ringraziando dichiarava la sua indisponibilità a sedere in Parlamento, in particolare asseriva l’impossibilità a giurare fedeltà ad uno Statuto concesso e non votato e destinato, in origine, solo ad una parte del Popolo Italiano. Ovviamente c’era anche il rifiuto dell’istituto monarchico, a cui rimproverava la convenzione di settembre con il governo francese che, spostando la capitale a Firenze, implicitamente rinunciava a Roma e “sancisce l’esistenza in Italia di due sovranità temporali”.

Ma sui rapporti con la monarchia si dilunga spiegando perché, nelle precedenti esperienze militari aveva nella sostanza appoggiato le guerre dei savoia, con cui rifiutava rapporti ora. La giustificazione è perfettamente comprensibile: era necessario giungere all’ unificazione nazionale. Ma c’è una ragione tutta interna al movimento repubblicano di allora, ne troviamo la spiegazione in un noto libro di Giovanni Spadolini

È evidente come i primi fondatori ed animatori delle «Associazioni democratiche italiane » non potessero con­sentire con Mazzini, intorno al ’66, nel suo programma di collaborazione condizionata con la Monarchia in vista dell’imminente guerra all’Austria. Il congresso di Parma dell’aprile scoprì le tre correnti fondamentali, che avreb­bero poi dominato, sotto insegne diverse, la vita della democrazia italiana: la destra garibaldina, parlamentaristica e radicale ante litteram bene impersonata da Ago­stino Bertani; il centro di Mazzini, fermo al problema dell’unità e pronto ad accettare tutti i mezzi e sop­portare tutte le dedizioni per risolverlo; la sinistra di Quadrio, di Marcora, di Brusco-Onnis2, di Bezzi e di Frigerio, contraria alla « guerra regia », avversa a qualun­que collaborazione con la dinastia, sdegnata verso la politica sociale ed economica della « moderateria », inac­cessibile alle seduzioni e alle offerte del partito di corte, ancora fedele ai miti e agli ideali del ’48, all’iniziativa popolare, alla fratellanza europea, alla rivoluzione dal basso, alla mistica repubblicana.

La Sinistra prevalse con larga maggioranza, ed i con­venuti (che rappresentavano soprattutto Liguria e Roma­gna e un po’ di Toscana e di Marche) elessero un Trium­virato intransigente nelle persone di Maurizio Quadrio, di Vincenzo Brusco-Onnis e di Giuseppe Marcora. Era la riaffermazione del non possumus nei riguardi delle imminenti iniziative militari della Monarchia, il «veto » preventivo alla ripresa della formula di Talamone, alla rinascita della « Società Nazionale », alla reviviscenza del possibilismo garibaldino; ma gli sviluppi della situazione avrebbero smentito di lì a poco propositi così ferrei e trascinato gran parte dei firmatari e dei dirigenti sulle posizioni della union sacrée, nelle trincee della guerra all’Austria. Mazzini dette l’esempio: imperturbabile alle opposizioni dei singoli, insensibile ai consigli e agli am­monimenti dell’ Unità, immemore delle esperienze e delle lezioni del passato, dimentico delle delusioni e delle in­gratitudini di ieri, sempre teso, con volontà e con de­dizione mistica, al suo scopo, al suo fine supremo, l’unità d’Italia.

La collaborazione dei mazziniani alla guerra del ’66 creò una prima frattura nel movimento repubblicano (un’altra ragione di perplessità e di divisione era stata la candidatura del maestro nelle elezioni dell’ ottobre ’65 : Mazzini era stato eletto a Messina, ma la Camera, dopo un lungo e movimentato dibattito, aveva rifiutato la convalida). L’Estrema «massimalista» non volle scen­dere a patti e denunciò pubblicamente il suo disaccordo e il suo dissidio con Mazzini. Il 17 maggio (la guerra scoppierà solo nel giugno: ma Mazzini aveva già scelto la sua strada) il Triumvirato emana una dichiarazione ufficiale che tende a separare le responsabilità e a definire le po­sizioni: «Di fronte all’opinione che egli (Mazzini) mani­festa e ai consigli che dà alla Democrazia…. noi, dissen­zienti radicalmente da lui circa l’attitudine che il Partito democratico dovrebbe assumere nella grave questione della guerra…. ci sentiamo in dovere di dichiarare pub­blicamente questo nostro dissenso, e di riaffermare la convinzione nostra, che soltanto una guerra, la cui origine, il cui fine, la cui direzione sieno evidentemente nazionali può condurre a unità, e che alla Democrazia specialmente importa che non si rinnovino all’Italia i funesti errori ed i tremendi disinganni del passato».  «Origine, fine, di­rezione»: tutti i presupposti, gli strumenti, gli scopi della « guerra monarchica » venivano bollati di infamia, posti in contrasto con gli autentici interessi nazionali, perché (suona ancora la dichiarazione) « noi crediamo nella sola virtù dell’iniziativa popolare per la conquista dell’unità italiana.  (4)

Spadolini, quindi, è frettoloso sulla vicenda della elezione di Mazzini, ma ad avviso di chi scrive, illustra bene il contesto per cui nelle sue lettere di rinuncia al seggio l’Apostolo fu così meticoloso nel distinguere la sua adesione alla guerra e il suo rifiuto del giuramento.

Da ultimo una curiosità, il mensile cattolico 30 Giorni, promosso da Giulio Andreotti in un numero del 1999 si occupa della vicenda, comprensibilmente riferendo di come fu accolta allora dagli ambienti cattolici. In particolare dal giornale torinese “Unità cattolica”, che con palese compiacimento narra dell’imbarazzo del governo sabaudo , vedendo nella patata bollente che il presidente del consiglio La Marmora si è trovato fra le mane una specie di punizione provvidenziale per i “soprusi”” perpetrati ai danni della Chiesa e del Papa

Tutte le arti e tutte le precauzioni non sono valse a nulla: Mazzini dovea entrare nella Camera, ed è entrato. Il pericolo fu scongiurato a Genova, scongiurato a Napoli; ma non si poté scongiurare in Sicilia. La Marmora si oppose a Pio IX che volea dare un vescovo alla diocesi vacante di Messina; ed oggi La Marmora de’ vedere Messina eleggersi per deputato Giuseppe Mazzini. Il presidente del Ministero non vuole il Papa che comandi in Italia, ed è costretto a vedere il peggiore dei demagoghi mandato a dettar leggi agl’Italiani. Venga poi il La Marmora a ripetere che l’Italia non è in rivoluzione; i quattrocentoquarantasei voti di Messina gli danno una fiera smentita […]. E questa elezione dovea necessariamente avvenire, e gli elettori di Messina sono i più logici di tutti gli elettori. L’Italia presente è il frutto degli studii, degli scritti, delle imprese mazziniane; e volete Mazzini in esilio? Egli ha diritto di venire in Italia, di parlare a Firenze, come deputato, anzi di comandare in qualità di ministro. Mazzini dee occupare il posto del generale La Marmora, e l’occuperà a suo tempo. E sapete chi gli preparerà la strada? Lo stesso La Marmora. Le sue opposizioni al Pontefice, le sue guerre agli ordini religiosi, i suoi epigrammi alla stampa cattolica, i suoi progetti di incameramento, i suoi amplessi ai Vacca, ai Natoli, ai Chiaves, sono un lavoro continuo da consegnare l’Italia in potere ai mazziniani (5)

 

Questo il racconto di Jessie White Mario (6)

Già alle elezioni generali del 1865 66 Mazzini fu portato candidato, senza essere consultato, ben inteso, in vari collegi, per esempio a Genova e a Napoli. A Napoli nel collegio di Monte Calvario, il candidato dei moderati vinse per soli cinque’ votii con grandi- dolori degli studenti dell’università, capitanati da Giorgio lmbriani.

A Genova fu osteggiato dalle forze riunite dei moderati e dei clericali.

Ma in Messina né preti né consorti poterono influire sul patriottismo puro e fervido degli isolani iniziatori. L’idea di portare candidato Mazzini, come protesta contro la condanna a morte che pesava ancora su quel  capo glorioso, fu di Saverio Friscia, oggi anche lui rapitoci; e la proposta  fu colta dal venerato padre dei siciliani, Emanuele Pancaldo, presidente del Comitato elettorale messinese e sostenuto dall’indomito Salvatore Besaja.

Vinsero, e Pancaldo annunciava la vittoria così: «Messina. – La tua fede e la tua costanza furono consacrate dalla dignità de’ tuoi immediati rappresentanti, quali sono i tuoi elettori. Essi scelsero GIUSEPPE MAZZINI. – Elettori. Voi avete ben meritato della patria. Patria i tuoi figli da Messina hanno corrisposto alla grandezza dei tuoi dolori, delle tue glorie, dei tuoi destini. Sia plauso a tutti. -Messina, 27 febbraio 1866.•

 

Il popolo esultava, la consorteria inferociva. Mazzini, ringraziando, concludeva•

 

«Ignoro, mentr’io vi scrivo, ciò che la Camera farà a mio riguardo, ma so che ciò che io debbo fare, per morire in pace colla mia coscienza e non indegno di voi. Io giurai

trenta quattro anni addietro – fede all’Italia una e repubblicana. Tacqui della mia fede quando il paese intiero dissentiva e decretava un esperimento su via diversa: non la rinnegai.

Secondai, come mi parve debito e quanto a me individuo era dato, ciò che poteva giovare a risolvere la prima metà del problema; ma senza mai convertire, come altri fece, in principio assoluto ciò che non poteva essere per noi tutti se non base, per un tempo, per l’esperimento. Spinsi l’abnegazione fino ad additare alla monarchia per quali gloriose e non difficili vie essa avrebbe potuto compirlo; ma non rivocai quel primo mio primo giuramento; non contrassi vincolo alcuno con chi poteva deludere; non cancellai la libertà dell’intelletto e dell’anima dietro a una ipotesi. Ed oggi che, per me almeno, quel sperimento è, senza frutto, compito – oggi che la monarchia, statuita, con aperta violazione dei plebisciti, Firenze metropoli, accetta, da un lato, una convenzione che sancisce  l’esistenza in Italia di due sovranità temporali, e sbanda dall’altro un esercito che   con rovina della finanza era stato ordinato per emancipare Venezia -io non potrei né voi lo vorreste – falsare l’antico unico mio giuramento, giurando alla monarchia ed ad uno Statuto anteriore alla vita nazionale d’Italia, e che non è né può esserne la formola.

 Convinto più sempre, che l’istituzione dalla quale oggi è retto il paese è inefficace a fare l’Italia una, libera, prospera e grande, come noi – voi ed io – l’intendiamo; darei giurandole fedeltà, un esempio d’immoralità politica a’ miei fratelli di patria e un perenne rimorso all’anima mia. Abbiatemi, ora e sempre, fratello ed amico riconoscente

Nell’ufficio della Camera l’elezione fu conosciuta regolare, ma il governo unì ai verbali le due sentenze di morte, la piemontese per i fatti di Genova nel 1857, la bonapartista per il supposto complotto del 1857. La sinistra, per voce di Nicotera, di Zanardelli, di Guerrazzi, insisteva per la convalidazione: «finché siete in tempo” disse Zanardelli, «fate che Mazzini non debba chiudere gli occhi in terra straniera».

Bixio domandò: «Oh! Volete escludere un uomo, che, quando sia morto, sarà conosciuto il primo uomo d’Europa?».

Crispi dimostrò che l’amnistia del 1859 comprendeva anche Mazzini, e citò in prova le parole del decreto, e la sentenza della Corte d’Appello di Genova che lo assolveva dal pagamento delle ottocento lire, reclamate dall’usciere che doveva impiccarlo.

Ma gli uomini del terzo partito, cioè i piemontesi capitanati dal Rattazzi, uniti ai ministeriali dl Lamarmora, votarono l’ostracismo al sommo fattore dell’ italica  unita; e di 302 presenti, centonovantuno confermarono l’esilio, 107 votarono il ritorno, quattro tacquero.

Messina torna alla riscossa, e il 6 maggio rimanda Mazzini al Parlamento: egli di nuovo ringrazia, rinunciando di nuovo: il Parlamento italiano, malgrado l’approvazione con 16 voti contro 11 nell’ufficio, conferma l’esclusione di Mazzini, plaudente con sogghigno l’ambasciatore francese Mallaret dalla tribuna diplomatica.

Messina, splendidamente ostinata, vuole Mazzini e non vuole altri, e lo rimanda per i la terza volta, e la Camera finalmente conferma l’elezione, Mazzini di nuovo ringrazia  e nuovamente rifiuta, e al presidente della Camera manda la seguente lettera

 

“Londra, 7 febbrajo 1867: «Signore. – Credo debito mio verso i miei elettori di Messina e verso la Camera, che approvò l’elezione, di significarvi, perché lo facciate

noto, l’animo mio. Non accetto, comunque riconoscente, l’onore che mi è fatto; nol potrei senza contaminarmi di menzogna; e parmi che primo ufficio del cittadino – segnatamente in una nazione che sorge – sia quello d’educare, come si può, coll’esempio i proprii fratelli, col culto della pura coscienza, all’adorazione del Vero. Repubblicano di fede, ho potuto tacerne quando importava che l’Unità materiale d’Italia, condizione indispensabile d’ogni progresso per noi, si fondasse a ogni patto e sotto qualunque bandiera; ma non potrei con tranquillità di coscienza giurare fedeltà alla monarchia, incapace, come io la credo, di fondare l’Unità morale della nazione. E profondamente convinto che l’istituzione fondamentale di un popolo deve rappresentarne la vita attuale – che l’unità della vita nazionale italiana, elemento nuovo e ignoto al passato, non può essere definita se non da un patto, liberamente discusso e votato dagli eletti del popolo tutto quanto d’Italia – che senza quel patto ogni assemblea è condannata a errare nel vuoto, nella incertezza del fine nazionale e nella impossibilità di attemperare i suoi atti a quel fine – io non potrei giurare fedeltà a uno statuto, largito vent’anni addietro, senza discussione e in circostanze anormali, a quattro  milioni e mezzo d’italiani del Settentrione, quando l’Unità d’Italia non era.

Credetemi, signore, col dovuto rispetto».

Marco Capodaglio

1) Denis Mack Smith  “Storia d’ Italia 1861 1969”  La terza 1972 pag 132FONTI

2) https://www.treccani.it/enciclopedia/jessie-white-mario_%28Dizionario-Biografico%29/

3) https://www.sicilians.it/mazzini-deputato-messinese-9883

4) Giovanni  Spadolini “I repubblicani dopo l’ Unità” Firenze Le Monnier 1980 pagg 5-7

5) http://www.30giorni.it/articoli_id_13670_l1.htm

6) J.White Mario  “Vita di Giuseppe Mazzini”  Roma, Lit Edizioni 2012 , pagg 353 e segg