Molto si discute sui diversi orientamenti di filosofia della Storia e sull’idea finalistica di un progresso inteso come graduale affermazione dell’idea di libertà, come evoluzione verso equilibri sociali sempre più avanzati, addirittura come progressiva realizzazione di un disegno superiore. Anche le interpretazioni più recenti, dallo “scontro di civiltà” di Huntington alla “fine della Storia” di Fukuyama non sfuggono al tentativo di individuare una struttura coerente e omnicomprensiva all’interno del corso della Storia, esponendosi non poco ai rischi del dogmatismo ideologico. E poi, sostengono molti utilizzando un paradosso suggestivo e per certi aspetti fondato, esistono ambienti fatti di persone e di luoghi che si sottraggono ad ogni categorizzazione perché essi, semplicemente, si collocano “al di fuori della Storia”.
Per meglio comprendere questo concetto conviene seguire il percorso compiuto da Raffaele La Capria2, un intellettuale sensibile che ebbe con Napoli un rapporto alterno (egli ebbe a definirlo “un poetico litigio”3). Questa la rappresentazione folgorante del suo pensiero riportata nel romanzo più celebre, Ferito a morte4: «Si tratta d’immaturità… non quella palese, di un individuo, ma quella più incomprensibile e sconcertante di una generazione, di una città, che si è messa fuori dalla Storia». Accade perché la loro storia si è interrotta, non si è compiuta. «Cosa significa non aver concluso la propria sorte? Significa che vi sono alcuni luoghi nel mondo, come Napoli (o Vienna, Praga, Venezia, Trieste, Alessandria, New Orleans, eccetera) dove la storia si è arrestata, è rimasta irrealizzata. Non si è evoluta gradualmente dispiegando tutte le proprie potenzialità, com’è accaduto a Londra a Parigi o a New York, ma a un certo momento (nel passato prossimo o in uno più lontano) per ragioni note o (per lo più) misteriose, c’è stato un blocco. Il blocco non riguarda soltanto la storia degli eventi, ma proprio il processo di crescita; riguarda la lingua, che rimane fissata a modi di pensare, parole, strutture, non più adeguate; riguarda la visione del mondo, il sentimento della vita, che si chiudono nell’autocontemplazione così tipica di quei luoghi dove tutto è già accaduto, e da cui tutto sembra ormai accadere sempre altrove…»5.
A Napoli, secondo La Capria, la rottura avvenne nel 1799: «Sul modello della rivoluzione francese la borghesia napoletana, la migliore che ebbimo mai, tentò la sua rivoluzione; ma il popolo, la plebe, non la capì. Erano due razze e non parlavano la stessa lingua, non potevano capirsi. Le orde della Santa Fede avanzarono come i mongoli, Ruffo come il flagello di Dio, e devastarono massacrarono distrussero. Una curiosa storia patria, buia e irrazionale, barbarica, in cui la plebe oppressa restituì il potere ai suoi oppressori e fece letteralmente a pezzi quel pugno di gentiluomini che le parlavano di libertà»6. Fu così che si ruppe l’equilibrio sul quale viveva la città, quell’equilibrio che La Capria definisce «l’Armonia tra Natura e Storia, Natura e Cultura, Genio del Luogo e Spirito del Mondo. Era un’Armonia solare e mediterranea, non lontana da quella che conobbero i greci… In quell’Armonia tutto si teneva, Vico e Pulcinella, Napoli e l’Europa, le “grandi idee” e l’ultima canzonetta. No, non era il Paradiso in Terra, perché c’era sempre, là, il popolo dei vicoli e la miseria: ma l’Armonia di cui parlo è qualcosa di diverso dalla giustizia sociale»7.
La rottura del 1799 generò la paralisi perché condizionò l’emergere e la vittoria definitiva di una piccola borghesia che impose «l’ideologia casalinga, accomodante, nient’affatto rivoluzionaria che conveniva alla nuova classe media ascendente: la “napoletanità”, un’astrazione che accomunava tutti sotto la stessa bandiera»8. Ancora con riferimento alla Napoli capitale armoniosa: «…ecco che nel 1799 accade qualcosa di irreparabile: la Guerra Civile – atroce – e quell’immagine è attraversata da una lacerazione che la sfigura. La “napoletanità” nasce per ricomporla. Nasce dopo il genocidio della grande borghesia illuminista che lascia la piccola borghesia sola di fronte alla plebe sterminata, ancora ribollente di furore e desiderio di rapina»9. Ma la borghesia, rimpicciolitasi, «anche se non andò nel senso della Storia, o se si preferisce nella direzione di tutte le borghesie occidentali, anche se si ripiegò su se stessa isolandosi in una narcisistica autocontemplazione, essa produsse una forma di civiltà a circuito chiuso buona solo per Napoli – la “napoletanità” – che risolse sia pure in modo anomalo… il problema irrisolvibile e immane della plebe, e diede alla città di Napoli un tono e un carattere unico, una finezza e una levità di spirito che non trovano riscontro in nessuna delle popolazioni meridionali»10. Ma lo spirito della napoletanità, nutrito da un dialetto reinventato, si mostrò inadeguato, perché poi «quei napoletani che “avevano goduto col contrabbando i frutti del nuovo mondo” e che De Filippo aveva rappresentato in Napoli milionaria, “finito il contrabbando ridiscesero nelle tane” scrive Rea (Domenico Rea in “Fate bene alle anime del purgatorio”, nda) “ma con una coscienza ed uno spirito diversi, col tanfo della sporcizia del vicolo sull’anima, e sotto il peso di una colonna d’ingiustizia piantata in mezzo al loro dissonante cuore. E per giunta senza poeti”. E quelli che uscirono dalle tane, quando ne uscirono, non erano più gli stessi di prima, non erano più i napoletani della “napoletanità”»11. In tempi moderni questa visione angusta ha assunto le sembianze del laurismo, una coltre che tutto avvolge, che toglie il respiro, che chiude qualsiasi orizzonte. Ne è espressione la assenza di caratura morale del notabilato «… con quelle facce segnate… dalle rughe degli infiniti sorrisi servili rivolti ai potenti, e dagli austeri cipigli rivolti agli inferiori»12.
Questi luoghi non possono troppo semplicisticamente essere considerati arretrati rispetto alla progressione e alla direzione degli eventi. Perché in realtà essi galleggiano al di sopra (o al di sotto) della Storia mantenendo con un essa un filo sottile e molto elastico, se ne tengono a distanza e più raramente si avvicinano, hanno dinamiche interne che sovrastano quelle esterne. Questo non significa che esistano microcosmi autarchici che possono prescindere dalla realtà generale ma semplicemente che certi ambienti tendono a introiettare le dinamiche esterne sterilizzandone le potenzialità trasformatrici per ricondurle all’interno di una struttura originaria che si vuole immutabile. Riuscendovi talora in misura maggiore, talaltra in misura minore. Non sono Luoghi anti-storici ma semmai a-storici o, meglio ancora, ipo-storici perché in essi il corso degli eventi non è immoto ma procede lentissimamente. Questi ambienti non hanno la forza di opporsi agli impulsi che vengono dai grandi avvenimenti ma anzi li recepiscono anche subitaneamente. Però metabolizzandoli secondo processi interni che riducono la grande Storia a vicenda locale.
L’immagine della Foresta Vergine, inventata da La Capria per Napoli, che tutto fagocita per restare immota è adeguata al fine di descrivere una città che tutto avvolge e sterilizza. Sebbene gli ambienti interni di una foresta pluviale pullulino di vita mentre nel caso di Napoli tutto procede stancamente e lentamente. E senza un orizzonte di riferimento. Gli esempi paradigmatici di questa umanità dispersa sono i due gaudenti del romanzo Ferito a morte i quali, separati da qualche anno di età, hanno entrambi mietuto grandi successi nella vita mondana: Sasà, il maggiore, ormai in disarmo e ridotto a vivere di espedienti, e Ninì, la giovane leva, sfuggente ed anzi introvabile perché nessuno sa mai dove rintracciarlo. Le due immagini di Napoli, decadente e indefinibile. E poi il girare a vuoto delle vite: Ninì è destinato a ripetere quella di Sasà chiudendo una circolarità vacua ed immobile perché non fa avanzare di un millimetro la vicenda umana.
Eppure, in questo mondo della ipo-storia dietro l’accettazione di una realtà che si ritiene immutabile, si scorge l’aspettativa anche angosciosa nei confronti di un mutamento improvviso. Così La Capria13: «Il napoletano che vive nella psicologia del miracolo, sempre nell’attesa di un fatto straordinario tale da mutare di punto in bianco la sua situazione». Anche se poi la speranza viene delusa. Come espresso magnificamente da Lucio Dalla in una delle sue canzoni più celebri14: «L’anno che sta arrivando tra un anno passerà, io mi sto preparando, è questa la novità». Perché nei luoghi della ipo-storia, le persone che pure sembrano compiacersi della loro condizione vivono in realtà l’attesa messianica di un cambiamento, sempre in procinto di realizzarsi ma che non avviene mai. La speranza nel colpo di scena è diversa dal rammarico per la grande occasione perduta che pure è ricorrente in Ferito a morte e che non a caso è il tema che introduce la vicenda narrata nel romanzo. Nel dormiveglia mattutino il protagonista, Massimo De Luca, sogna di non riuscire a catturare una enorme meravigliosa spigola e subito dopo ripensa all’episodio nel quale egli fallisce l’incontro intimo con il grande amore della sua vita15. E’ come se la grande occasione perduta determini una paralisi dei comportamenti ed uno stallo della situazione che solo un evento imprevisto ma sperato può modificare. Forse è questo che intende La Capria quando attribuisce al carattere napoletano anche l’elemento dell’attesa del miracolo.
Ma l’ipostoria è un fattore di rischio spaventoso perché le società inattuali sono immature sul piano del tessuto civile prima ancora che sociale e diventano facile preda di quei movimenti che non si pongono in modo dialettico ma investono questi ambienti violentemente. Forse se Napoli avesse avuto uno sviluppo economico ordinato e una moderna struttura sociale e civile, la camorra non avrebbe avuto la forza per desertificare così tanta parte del suo territorio. Il problema dell’ipostoria è questo. La specificità locale è suggestiva e costituisce una sorta di genius loci cui le persone rimangono legate per sempre ma, nel contempo, è un elemento di forte debolezza nei confronti di quegli eventi sovrastanti che non si ha modo di metabolizzare lentamente ma intervengono e si impongono violentemente. Paradossalmente, sosteneva La Capria, l’adattamento ai nuovi contesti ha assunto forme e modalità patologiche nel momento in cui è accaduto che la speculazione edilizia ha coperto Napoli come Città del Messico16 e la società criminale «si è in breve tempo internazionalizzata passando dall’autoctono e provinciale contrabbando di sigarette alla mafia cosmopolita del traffico di droga». Ma niente è per sempre. E come accaduto ad altre realtà è possibile entrare nella modernità conservando una propria fisionomia e sottraendosi agli aspetti deteriori. Al solito è necessaria una classe dirigente che abbia una visione e una forza trainante.
Ringrazio G. D. che, attraverso un post pubblicato su un social network, mi ha ricordato la figura di Raffaele La Capria. Suo il magnifico accostamento tra la rappresentazione della realtà di La Capria e la fotografia di Nino Migliori, accostamento che ho volentieri ripreso ed utilizzato. In effetti le serie “neo-realiste” di Migliori (Gente dell’Emilia, Gente del Nord, Gente del Sud, Gente del Delta) descrivono un‘Italia popolare degli anni ’50 che in parte si è conservata nei luoghi dell’ipo-storia sparsi ancora oggi lungo la penisola, nella provincia italiana, soprattutto ma non esclusivamente in quella del Sud.
CDL, 1 dicembre 2019
- Per una sintesi della controversia tra l’approccio di Huntington e quello di Fukuyama si veda: CDL, Scontro di civiltà o Fine della storia?, Democrazia Pura, 18 febbraio 2013.
- Ci si riferisce a due testi fondamentai dell’autore: il romanzo “Ferito a morte” (Milano, Mondadori, 1961, Ristampa 2019) nel quale egli inizia a configurare la sua idea di una città che si pone fuori dalla storia e la raccolta di articoli “L’armonia perduta” (Milano, Mondadori, 1986) che è costituita da riflessioni più mature sullo stesso argomento.
- Raffaele La Capria, L’armonia perduta, cit., p. 23.
- Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 41.
- Raffaele La Capria, L’armonia perduta, cit, p. 15.
- Ivi, p. 26.
- Ivi, pp. 20-21.
- Ivi, p. 35.
- Ivi, pp. 127-128.
- Ivi, p. 135.
- Ivi, p. 138.
- Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 66.
- Ivi, p. 99.
- Lucio Dalla, L’anno che verrà, 1979.
- Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., pp. 5-6.
- Raffaele La Capria, L’armonia perduta, cit., p. 11.