De Chirico e la poetica della metafisica

 

 

Il primo Novecento segna uno dei momenti più clamorosi nella storia dell’arte italiana. Nel 1910 Giorgio de Chirico dipinge “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” (Figura 1) che è  considerato l’opera fondante della pittura metafisica (1).

Figura 1. Giorgio De Chirico. L’enigma di un pomeriggio d’autunno, 45 x 60 cm, 1909. Immagine tratta dal sito della Fondazione De Chirico.
Figura 1. Giorgio de Chirico. L’enigma di un pomeriggio d’autunno, 45 x 60 cm, 1909. Immagine tratta dal sito della Fondazione de Chirico.

La scena rappresentata la Piazza Santa Croce di Firenze completamente trasfigurata (Figura 2). La basilica è trasformata in una sorta di tempio greco con i portali chiusi a tenda; il monumento a Dante è spostato sull’altro lato e  sostituito con una statua in rovina il cui piedistallo, dotato di due fontane, reca le iniziali dell’artista; le vele di una nave appaiono da dietro un muro e solcano un cielo verde e senza nuvole; solo due meste figure in tunica popolano la piazza; lunghe ombre  ne attraversano lo spazio. La sensazione è quella di una grande e sofferta solitudine. Una malinconia cristallizzata e senza movimento vissuta attraverso un’atmosfera surreale che sembra onirica (ma de Chirico rifiuterà sempre la definizione di surrealismo). Da questo quadro parte l’avventura metafisica di de Chirico che nel corso del tempo si arricchirà di nuovi elementi, a partire dai celebri manichini che per tanti anni caratterizzeranno la sua pittura.

Figura 2. Giacomo Brogi (1822-1881), Firenze, Chiesa di S. Croce e statua di Dante. Immagine tratta da Wikipedia.
Figura 2. Giacomo Brogi (1822-1881), Firenze, Chiesa di S. Croce e statua di Dante. Immagine tratta da Wikipedia.

Così, nel 1912, de Chirico descrive lo stato animo che portò al concepimento dell’opera: «A proposito di tutte queste questioni vi dirò come ho avuto la rivelazione di un quadro che ho esposto quest’anno al Salone d’Autunno e che porta come titolo: L’enigma di un pomeriggio d’autunno. In un chiaro pomeriggio d’autunno ero seduto su di una panca in mezzo a Piazza Santa Croce a Firenze. Certo non era la prima volta che vedevo questa piazza. Stavo venendo fuori da una lunga e dolorosa malattia intestinale e mi trovavo in uno stato di sensibilità quasi torbido. La natura intera, fino al marmo degli edifici e delle fontane, mi sembrava in convalescenza. Al centro della piazza si eleva una statua rappresentante Dante ricoperto di un lungo abito, che tiene stretta nella mano la sua opera, e che reclina verso il suolo il capo pensoso coronato d’alloro. La statua è di marmo bianco; ma il tempo le ha conferito una tinta grigia molto piacevole a vedersi. Il sole autunnale, tiepido e senza amore, rischiarava la statua come anche la facciata del tempio. Ebbi allora l’impressione strana che vedessi queste cose per la prima volta. E mi venne in mente la composizione del quadro; ed ogni volta che guardo questo quadro rivedo questo momento: il momento tuttavia è un enigma per me, perché è inspiegabile. Amo così chiamare l’opera che risulta un enigma» (2).

Già il riferimento al pomeriggio evoca la visione nietzscheana del tramonto come espressa in “Così parlò Zarathustra” ed intesa quindi come percorso attraverso il quale il profeta discende tra gli uomini a portare il messaggio (3). Ma a richiamare esplicitamente il periodo di Zarathustra del pensiero di Nietzsche è l’uso di alcuni termini che fanno esplicito riferimento al discorso intitolato “Della visione e dell’enigma”, nel quale il filosofo tedesco espone forse la sua formulazione più definita della teoria dell’”eterno ritorno”. E’ in questo discorso che Nietzsche parla espressamente di enigma come visione e di sogno come strumento di conoscenza. Ed espone il suo concetto di rivelazione come improvviso disvelarsi della realtà. La visione, il sogno, è quella di un giovane pastore azzannato da un serpente nero all’interno della bocca di cui riesce a liberarsi solo mordendolo a sua volta per staccarne la testa. Il pastore è il superuomo (o l’oltreuomo come alcuni preferiscono definirlo) che riesce a liberarsi vincendo la ripugnanza nei confronti dell’eterno ritorno (il serpente simbolo del tempo circolare). La teoria dell’eterno ritorno rimane forse l’aspetto più controverso e problematico della storiografia nietzscheana ed una sua analisi esula dagli obiettivi della presente trattazione. In questa sede interessa solo sottolineare l’adesione piena di de Chirico ad alcuni aspetti fondamentali della filosofia nietzscheana.

D’altronde de Chirico amava considerarsi allievo di Nietzsche e suo interprete fedele (4). Ma nonostante questo e sebbene si sia dilungato a spiegare la sua concezione estetica, non volle mai definire compiutamente la sua poetica che è stata esposta in modo non strutturato e che quindi può essere solo intuita, supposta, ipotizzata. In proposito de Chirico scriverà le sue riflessioni più mature nel 1919 quando la sua ricerca sta volgendo altrove e la stagione della metafisica si va concludendo, forse proprio per fissarne i caratteri salienti e poter andare oltre. Le sue riflessioni compaiono in particolare in un articolo pubblicato nel 1919 su “Valori Plastici”, rivista fondata l’anno prima e diretta da Mario Broglio, sulla quale Alberto Savinio si incaricherà di esporre la nuova poetica metafisica alla quale si richiameranno pittori del calibro di Giorgio de Chirico, Carlo Carrà, Giorgio Morandi (5).

Nell’articolo, de Chirico precisa che la realtà si compone di almeno due aspetti, quello corrente comunemente percepito, e quello spettrale che solo alcuni riescono a vedere e solo in una fase di “astrazione metafisica”: un po’ come certi elementi  della materia emergono quando sono irradiati dai raggi x. Egli si sofferma anche sull’estetica metafisica laddove descrive i segni dell’arte ma questo aspetto non è oggetto di discussione in questa sede. Ritornando invece alla poetica, secondo de Chirico l’interpretazione metafisica è legata ad un resettaggio della memoria che consente di vedere una realtà svincolata dai pregiudizi del ricordo e, come nel sogno, di scoprirne gli aspetti misteriosi.

«Pigliamo un esempio: io entro, vedo un uomo seduto sopra una seggiola, dal soffitto vedo pendere un gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri; tutto ciò non mi colpisce, non mi stupisce poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo; ma ammettiamo che per un momento ed per cause inspiegabili e indipendenti dalla mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca; chissà allora quale stupore, quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando quella scena».

Volendo interpretare la sua poetica, si può forse affermare che la “rivelazione” in base alla quale una scena già conosciuta gli appare come nuova, non è altro che il risultato di un’esaltazione misterica che consente all’artista di andare oltre la rappresentazione formale della realtà e pervenire ad una visione onirica che egli stesso accetterà di definire metafisica e che in qualche modo può essere considerata di tipo apollineo. Si può inferire che è grazie all’impulso dionisiaco che l’artista supera definitivamente la realtà ed anzi se ne separa per trasfigurarla completamente secondo l’ordine e l’equilibrio apollineo.

Il percorso iniziatico che egli compie origina da uno stato doloroso, la convalescenza da una malattia, che ne costituisce lo slancio iniziale. Ed anche il legame con il dolore è  tipico del Nietzsche interprete della tragedia greca che in proposito aveva scritto: «il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: soprattutto per poter vivere, egli dové anteporre a queste la nascita onirica degli dei olimpici. Per poter vivere, i Greci  dovettero, per la più profonda necessità, creare questi dei: il loro avvento dobbiamo senz’altro rappresentarcelo così, che dall’originario titanico ordinamento divino del terrore attraverso quell’impulso apollineo alla bellezza si sviluppò, in lenti passaggi, l’olimpico ordinamento divino della gioia, nello stesso modo in cui le rose sbocciano da uno spineto» (6).

 

CDL, 21 Gennaio 2019

 

Pubblicato su Il Sestante il 24 Gennaio 2019

 

  1. In de Chirico la riflessione sulla poetica e sull’estetica procede ovviamente in parallelo e lungo percorsi non sempre lineari. In questa sede ci si limita (e già non è poco) alla discussione sulla poetica della metafisica, intensa come insieme dei principi e degli strumenti intellettuali di cui si avvale l’autore per esprimere il suo messaggio e che forse de Chirico non teorizzò mai compiutamente. Altro discorso è invece costituito dall’estetica della metafisica intesa come dottrina del bello sulla quale il pittore si soffermò in vari momenti del suo percorso artistico.
  2. Riccardo Dottori. Giorgio de Chirico. Immagini metafisiche. Milano, La nave di Teseo, 2018. Il racconto dell’artista è contenuto in uno scritto, Méditations d’un peintre, databile al 1912. La traduzione dello scritto riportata dalla Treccani è complessivamente analoga sebbene, in alcuni passaggi, sensibilmente diversa. Si veda in proposito: Valerio Rivosecchi. Voce: de Chirico Giorgio. Dizionario biografico degli italiani. Vol 33, 1987. Enciclopedia Treccani online.
  3. Friedrich Wilhelm Nietzsche. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. In: Nietzsche, Le grandi opere, Newton Compton editori, Roma, 2011, pp 1271-1472.
  4. Sulla relazione ripetutamente affermata dallo stesso de Chirico tra la pittura metafisica e la filosofia di Nietzsche si vedano in particolare le riflessioni di Riccardo Dottori in: Giorgio de Chirico, Immagine metafisiche, l’enigma di un pomeriggio d’autunno, cit; Dalla poesia di Zarathustra all’estetica metafisica. Metafisica, 7-8: 93-116, 2008.
  5. Giorgio de Chirico. Sull’arte metafisica. Valori Plastici, Roma, anno I, n. 4-5, aprile-maggio, pp 15-18, 1919. Riproduzione anastatica, Milano, Mazzotta , 1969.
  6. Friedrich Wilhelm Nietzsche. La nascita della tragedia greca ovvero Grecismo e pessimismo (capitolo 3, p 124). In: Nietzsche, Le grandi opere, Newton Compton editori, Roma, 2011.