Alle catastrofi si può rispondere come dopo il 1918 o come dopo il 1945. Ci sono momenti nella storia in cui il passaggio non è soltanto politico, ma culturale, antropologico. E noi siamo chiamati a vivere e a decidere in uno di questi.
Difficile definire un contesto storico perché in ogni ambito si possono rinvenire linee essenziali comuni ma anche molte eccezioni. Il rischio è sempre quello di forzare gli aspetti particolari all’interno di macro-categorie generali falsandone in qualche maniera la trama, la struttura intima. Eppure quando si rendono necessarie delle scelte di ampio respiro può risultare inevitabile procedere attraverso astrazioni generali che consentano di interpretare la realtà e di decidere di conseguenza. E forse oggi ci troviamo a questo punto: dover decidere se accettare definitivamente il prevalere dei sovranismi o se invece alimentare ancora il sogno di un’Europa unita. Così conclude Massimo Cacciari in un articolo pubblicato di recente su L’Espresso (1) e di cui di seguito si riporta il testo integrale: «Ci sono momenti nella storia in cui il passaggio non è soltanto politico, ma culturale, antropologico. E noi siamo chiamati a vivere e a decidere in uno di questi».
Finis Europae. Se l’Unione fallisce.
Massimo Cacciari
Vi fu un periodo, dopo la fine della prima Grande Guerra, in cui tutti i più grandi spiriti europei si sentivano disperatamente soli. Lo spazio che li aveva coinvolti, in cui avevano viaggiato l’uno verso l’altro, in cui si erano tradotti, amati o combattuti poco importa, era stato travolto. La Nazione di ciascuno si rinserrava in se stessa, imprigionandoli e imprigionandosi. Il senso di un Ordine che comprendeva diverse lingue e confessioni, diversi caratteri e destini, in una tensione interna che significava ricerca, insoddisfazione per ogni acquisita eredità, per ogni tradizione o ethos che pretendessero di costituire stabili dimore, il senso di quell’Ordine dove ogni elemento voleva essere un centro capace di irradiare luce propria e di accogliere quella altrui, sembrava a tutti coloro che lo avevano coltivato distrutto per sempre. È la tonalità che pervade le parole dei Mann e degli Hofmannsthal, dei Valery, degli Ortega, dei Croce. Tra la loro giovinezza e il presente che vivono c’è l’abisso. La Guerra e ancor più il dopo-Guerra l’hanno scavato. L’Europa, quel Tutto tutto-vivente per i suoi stessi contrasti, per le sue affinità e differenze, per cui Agostino e Tommaso non esistono senza Platone e Aristotele, per cui Virgilio è guida di Dante, l’Antico si fa profezia nell’Umanesimo, Goethe traduce Diderot e Manzoni, Nietzsche ama Dostoevskij e Rilke la Cvaetaeva, quello spazio. l’Europa, di cui nessuno potrebbe definire con certezza i confini, ma che certamente contiene nel proprio spirito l’ecumene mediterranea e Mosca, la terza Roma, si è dissolto. Questo avvertivano e dicevano i maestri di allora, cento anni orsono. Che sogni da letterato, replicavano i Realpolitiker, che nostalgie estranee al popolo, ai suoi reali interessi. Comunità concreta può darsi soltanto all’interno di confini nazionali, una sovranità non può esistere che territorialmente determinata – e la cultura di un Paese sia immune per quanto possibile da influenze straniere. La politica europea mandò in esilio le voci che cercavano di ricordare – di porre al centro del nostro cuore e della nostra mente – come l’adesione spirituale all’idea di Europa fosse
essenziale per ogni Paese e per la pace tra loro. Per alcuni fu esilio vero e proprio, quando non la morte, per altri si consumò all’interno della patria, ormai irriconoscibile.
Dopo la seconda Grande Guerra si aprì un destino diverso per le nazioni europee. Le élites politiche compresero che la salvezza di ciascuna dipendeva dal foedus con cui stringerle insieme tutte. E che un tale accordo non sarebbe mai stato possibile senza condivisione di memorie, valori e fini. Era un contro-movimento complessivo rispetto a una generazione prima: allora la Guerra aveva scatenato revanscismi e nazionalismi, ora l’atroce sconfitta rigenerava l’idea di una unità politica europea radicata sui principi che quegli “antichi maestri” avevano invano difeso.
Questo itinerario dello spirito europeo si è concluso? È finito prima di giungere al suo fine? L’unità politica di Europa rimarrà un’incompiuta o addirittura la sua stessa idea finirà con l’essere abbandonata? Anche nel 1929 venne proclamata da Stresemann e Briand come necessaria. Si brindò a una nuova età di amicizia tra Francia e Germania, sulla cui base ricostruire l’intero continente. Nulla si ripete nella storia, ma tutto in forme analoghe può farvi ritorno. Non c’è stato Hitler, come dopo il ’29, né ci sarà, a spezzare il filo rosso della ricerca di un’Europa unita, ma il mondo cambia anche senza guerre. Così è avvenuto dopo il 1989, così ancora con la crisi del 2007. Alle catastrofi si può rispondere come dopo il 1918 o come dopo il 1945. Pensando di potersi salvare e magari prosperare da soli e contro altri, o concependo la propria stessa forza come elemento di una potenza e di una sovranità comuni. La prima alternativa, a differenza che cento anni fa, non è oggi neppure “aritmeticamente” credibile – tuttavia, il fallimento della seconda potrebbe renderla inevitabile. Ed essa fallirà di certo se continuerà a essere declinata in termini meramente mercantili, se le infinite osmosi tra le nostre diverse nazioni e culture verranno ridotte a rapporti di scambio, se la crescita delle nostre interdipendenze economiche sarà direttamente proporzionale al disciogliersi delle nostre memorie comuni, dei nostri miti comuni, anche, al venir meno del dialogo tra i nostri diversi linguaggi. Ci sono momenti nella storia in cui il passaggio non è soltanto politico, ma culturale, antropologico. E noi siamo chiamati a vivere e a decidere in uno di questi.
1. Massimo Cacciari. Finis Europae. Se l’Europa finisce. L’Espresso, n. 18, 28 aprile 2019.
Tivoli, 11 maggio 2019