Johannes (Jan) Vermeer (1632-1675) dedicò tutto il suo impegno di pittore alla ricerca della luce. Inoltrandosi su sentieri molto diversi da quello seguiti da Rembrandt (1606-1669) che pure in quel periodo era la figura dominante.
La cifra di Vermeer, la tonalità cromatica leggerissima, quasi eterea, era potenziata dall’uso sapiente di una tecnica complessa che consisteva nell’applicare punti di colore, in genere un bianco sporco o un giallo molto pallido, a distanza molto ravvicinata per “rivestire” le aree del dipinto che dovevano risultare maggiormente esposte alla luce. Con questa metodica, nota come pointillé, i punti sono così accostati da non essere più visibili pur mantenendo quella individualità che consente all’artista di riprodurre chiarori come quelli tipicamente riflessi dalle superfici lucide ed inoltre di ottenere un effetto alone, una foschia luminosa analoga a quella che appare sullo schermo di una camera oscura (di cui è possibile che Vermeer facesse uso). Sebbene in queste aree il colore sembra coprire uniformemente la superficie della tela, i punti ne determinano una discontinuità intima che contribuisce ad esaltarne straordinariamente la luminosità (Figure 1-5).
Tra tutte le componenti tecniche che concorrono in un dipinto a potenziare la luce, si è ritenuto di utilizzare il filo conduttore della forma e della dimensione del tratto (punto, macchia, virgola, filo) sul quale per un certo periodo si sono distinte le diverse scuole. La scelta di seguire le correnti pittoriche esclude quegli autori, alcuni di grandissima levatura, che pure hanno singolarmente dedicato grande impegno allo studio del tratto.
La pittura di Vermeer, caduta nell’oblio per decine d’anni, viene riscoperta verso la metà dell’Ottocento quando alcuni esponenti dei macchiaioli (Figura 6) e soprattutto gli impressionisti se ne interessano per approfondire gli effetti della luce. Tanto che la tecnica impressionista, quella delle virgolature a macchia, viene “inventata” anche allo scopo di esaltare la luce interna al colore (Figure 7-8). Quando poi l’impressionismo giungerà a maturazione piena e comincerà anzi a segnare il passo, ecco sorgere da esso, intorno al 1870, una nuova corrente pittorica, il pointillisme (o puntinismo o puntillismo). I tratti dell’impressionismo si riducono di lunghezza sino a divenire tocchi puntiformi di colori puri o complementari che si mescolano solo nella retina dell’osservatore. Nel pointillisme, detto anche neo-impressionismo, a differenza che nel pointillé i punti rimangono ben visibili per consentire a ciascuno di essi di mantenere il proprio alone (Figure 9-10). L’obiettivo del nuovo movimento è quello di dilatare ulteriormente la luce ad un livello che andasse oltre quello raggiunto dall’impressionismo. Il pointillisme, il cui termine si deve al critico Félix Fénéon, avrà come principali rappresentanti Georges Seurat, Paul Signac e, per un certo periodo, Camille Pissarro. In Italia, sempre alla fine dell’Ottocento, nasce una corrente pittorica, il divisionismo, che in qualche modo fa riferimento al puntinismo sebbene il tratto della pennellata perda la caratteristica puntiforme per assumere invece l’aspetto filiforme (Figura 11). Ricorrendo alle teorizzazioni di Kandiscky si potrebbe forse affermare che l’intenzione era quella di passare dalla staticità del punto alla dinamicità della linea pur mantenendo la separazione dei colori. Del Divisionismo fanno parte Giovanni Segantini, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Andrea D’Agostino e quello che può essere considerato il teorico del movimento, Gaetano Previati. Il divisionismo costituisce la base pittorica da cui scaturiranno alcuni evoluzioni del dinamismo futurista (Figura 12).
CDl, 23 Ottobre 2018. Pubblicato su Il Sestante il 30 Marzo 2018.