Non nascerà. Sotto la spinta dei neo-populismi di destra, l’Europa non può che implodere. E per convincersene basta osservare quanto sta accadendo in questi giorni e riflettere sulle due questioni cruciali per il futuro dell’Unione: migranti e debito pubblico.
Sui migranti ormai si è aperta una guerra di tutti contro tutti. L’Italia reclama una ricollocazione che il gruppo Visegrad rifiuta decisamente. La cancelliera Merkel ha dovuto cedere alle pressioni della componente più a destra del suo governo, la CSU di Horst Seehofer, finendo per accettare il progetto di respingimento dei migranti alla frontiera con l’Austria ed il loro trasferimento nei Paesi di prima accoglienza (Italia innanzitutto). Se non che il premier austriaco Sebastian Kurz, a capo di un governo cui partecipa il partito neo-populista Fpö di Heinz-Christian Strache, ha risposto picche e in modo anche piuttosto risentito1. Infatti, senza un accordo con l’Italia, i migranti respinti alla frontiera con la Germania rimarrebbero in Austria. Nell’incontro bilaterale dello 11 luglio scorso, Salvini ha offerto al suo omologo tedesco Horst Seehofer la disponibilità a riprendere i migranti che dal nostro Paese riescono ad arrivare in Germania ma solo quando saranno pienamente garantite le frontiere esterne dell’Italia2. Insomma un gigantesco grottesco gioco dell’oca nel quale non si arriva mai ad una conclusione ma si ritorna sempre al punto di partenza.
Sull’altra questione, quella del debito pubblico, l’agenda si presenta altrettanto complicata. La Germania difficilmente potrà fare concessioni. Per una tradizione politica di rigore di cui la Grecia ha potuto già sperimentare l’applicazione rigida ed ottusa. Ma ora anche per ragioni di politica interna in quanto la CSU tedesca ormai non fa più mistero di volersi cimentare con i neo-populisti di “Alternativa per la Germania”. Se questi propongono l’uscita dall’euro, la CSU non potrà mai avallare una politica comunitaria anche vagamente tollerante sull’equilibrio dei conti dei vari Paesi.
La dorsale dei nazionalismi neo-populisti già al potere si va estendendo (Figura 2) e comprende innanzitutto i quattro Paesi di Visegrad: Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia. In Polonia governa il partito “Legge e giustizia” (Pis), fondato dai fratelli Kaczyński, un movimento dalle forti venature populiste e decisamente euroscettico, che alle ultime elezioni politiche (2015) ha raccolto il 37,6% dei voti mentre il suo candidato alle presidenziali del maggio 2015, Andrzej Duda, ha ottenuto il 51,5% dei consensi. L’Ungheria è governata dal partito “Alleanza civica” (Fidesz) del premier Victor Orban, al potere dal 2010, che ha conseguito il 48,9% dei voti alle ultime elezioni politiche del 2018. Sovranista, euroscettico, populista, Orban è andato più avanti di tutti nella politica di limitazione delle libertà civili e politiche. Nella Repubblica Ceca, il partito “Azione dei cittadini insoddisfatti” (Ano) ha vinto le elezioni del 2017 con il 29,6% dei voti. Fondato dal miliardario Andrej Babis su posizioni liberiste, antieuropeiste ed antieuro, nel corso del tempo il partito è andato ammorbidendo le sue posizioni che rimangono comunque di forte avversione alla politica di accoglienza. In Slovacchia, il partito “Direzione-socialdemocrazia” (Smer-sd), sebbene appartenga al Partito Socialista Europeo, ha vinto le elezioni del 2016 con una propaganda fatta di slogan xenofobi e toni molto duri nei confronti degli immigrati. I quattro Paesi sono gli eredi di quelli che, nel 1991, si costituirono come gruppo di Visegrad (dal nome della castello ungherese presso il quale avvenne la prima riunione) ed il cui l’obiettivo era quello di sviluppare una politica di collaborazione nel processo di integrazione europea. Di quella antica ispirazione non è rimasto più nulla ed oggi il terreno di condivisione è costituito dalla forte ostilità nei confronti della politica sui migranti seguita dall’Europa. Una posizione così radicata che ha fatto sì che essi nel recente passato rifiutassero il piano di redistribuzione dei rifugiati predisposto dalla Commissione Europea.
In Austria il “Partito popolare austriaco”, l’ÖVP, di matrice democristiana, ha vinto le elezioni del 2017 con il 31,4% dei voti insieme al “Partito della Libertà Austriaco” (Fpö), di estrema destra, che ha raggiunto il 27,4% dei consensi. I due partiti hanno dato vita ad un governo dichiaratamente ostile alla politica europea di accoglienza. Ne è premier il giovane democristiano Sebastian Kurz, di recente salito agli onori della cronaca per le dure reprimende nei confronti dell’Italia accusata di non controllare adeguatamente le frontiere. Alla schiera dei governi neo-populisti, si è aggiunta di recente l’Italia, la cui guida è stata da poco assunta dalla coalizione di due partiti neo-populisti: il M5S (32,7% dei voti) e la Lega (17,4%). Non si può infine trascurare il fatto che in Germania insieme all’”Unione cristiano-democratica” (CDU) e al “Partito socialdemocratico” (SPD), governa la “Unione cristiano sociale” (CSU), la democrazia cristiana bavarese, storicamente più a destra rispetto all’alleato CDU, che nel land tedesco ha ottenuto il 38,8% dei voti e che ha deciso di competere con il partito di destra radicale “Alternativa per la Germania” anche sul terreno della politica di accoglienza. La CSU è decisiva, politicamente e numericamente, per la sopravvivenza del governo tedesco tanto che la cancelliera Merkel, messa sotto pressione dal suo Ministro dell’Interno e leader della CSU, ha dovuto cedere ed assumere l’impegno di bloccare i migranti alla frontiera con l’Austria.
D’altra parte, gli europeisti hanno avuto le loro occasioni e non hanno saputo sfruttarle. Anzi le hanno gettate al vento. Diverse volte. A cominciare da quando fu imposta alla Grecia una politica di rigore estremo. In ultimo quando non hanno saputo imporre sulla questione dei migranti una politica di equa redistribuzione, necessaria per tante ragioni. Tra l’altro anche per sostenere il governo italiano di allora di fronte alla marea montante del neo-populismo. L’ignavia degli europeisti, Macron su tutti ma non solo, è una delle cause che ha portato al forte ridimensionamento dei partiti favorevoli ad una maggiore integrazione dell’Europa. Non solo in Italia.
Insomma tra i Don Abbondio ed i Torquemada, si va esaurendo il sogno europeo come esso era stato concepito nell’immediato dopoguerra e prende sempre più forma uno scenario nel quale tornano a predominare gli Stati-Nazione. Il fatto è che i nazionalismi non possono che essere impotenti in un contesto che si presenta molto più ampio rispetto allo scenario geopolitico del secolo scorso e nel quale i grandi gruppi economico-finanziari possono muoversi con maggiore agio e, soprattutto, con una oggettiva unità di intenti. Mentre gli stati-Nazione hanno un campo di azione limitato all’ambito regionale (o al massimo sovraregionale) e spesso perseguono obiettivi contrastanti, i grandi gruppi economico-finanziari possono agire rapidamente, su una scala globale e nella medesima direzione, quella indicata dagli interessi comuni. Solo una maggiore integrazione europea e una più stretta collaborazione con gli Usa avrebbero potuto contrastare questo processo. I singoli Paesi si trovano in uno stato di oggettiva minorità che li porta a competere l’uno contro l’altro, dando vita talora a spettacoli anche poco dignitosi. Come quello offerto dai vari governi europei che mendicano gli investimenti delle multinazionali offrendo condizioni sempre più vantaggiose in termini di riduzione della pressione fiscale e del costo del lavoro (a questo servivano le riforme del diritto del lavoro approvate negli anni passati in Germania, Francia e Italia, anche prima del jobs act). Un episodio serve ad illustrare al meglio la posizione incube delle grandi multinazionali e lo stato di sudditanza dei singoli Stati. Qualche mese fa, la cordata che intende rilevare l’Ilva di Taranto, di cui è azionista di maggioranza il colosso Arcelor, ha posto al governo italiano condizioni di acquisto molto dure, tra le quali quella di poter procedere al licenziamento definitivo di circa 4.000 “esuberi” e all’allontanamento con riassunzione tramite jobs act di altre 11.000 unità di personale (il cui stipendio risulterebbe decurtato di un 30%-40%). Oggi la UE potrebbe ancora intervenire. Per esempio per contestare ad Arcelor l’acquisizione di una posizione dominante nel mercato dell’acciaio. Sinora non lo ha fatto. Per ignavia o per convenienza di qualcuno.
Certo è che un mercato nel quale ogni Stato tratta per sé (e contro gli altri), le grandi multinazionali diventeranno ancora più forti ed i nazionalismi mostreranno tutta la loro impotenza. Chissà che questo non ci spinga a ripensare un Europa ancora più unita, libera dalle paure e dalle ossessioni identitarie e fiduciosa in un futuro di libertà, democrazia e fratellanza. Io speriamo che me la cavo.
CDL 15 Luglio 2018
1. T.M. Il muro di Vienna ed il patto di Berlino. La Repubblica, 6 Luglio, 2018.
2. Angela Mauro. Innsbruck sovranisti senza intesa: Salvini e Seehofer in disaccordo sui movimenti secondari. Huffingtonpost, 11 Luglio 2018.