E’ opinione diffusa che alle prossime elezioni nessuno degli schieramenti in campo riuscirà ad avere una maggioranza e che ben presto si debba tornare a votare. In un contesto però di ulteriore frammentazione del quadro politico. Infatti, nel corso di questa campagna elettorale mentre i toni della polemica tra gli schieramenti non sono stati particolarmente vivaci, paradossalmente (ma non troppo) le tensioni interne ai partiti si sono talmente acuite da far presagire ulteriori clamorose rotture, separazioni, scissioni.
LeU, per sua stessa ammissione, è un cartello elettorale e non un partito e nemmeno una coalizione. Le due componenti principali, ex SeL ed ex Pd, si sono unite per necessità, quella di superare lo sbarramento del 3%, trovando una ragione politica nella comune ostilità nei confronti di Renzi più che nell’unità di intenti. Almeno questo induce a pensare il fatto che nel programma presentato agli elettori alcune delle questioni più caratterizzanti per la sinistra siano trattate con artifici retorici che servono a mascherare una grande vaghezza di idee o, nella migliore delle ipotesi, un profonda diversità di vedute. A proposito del tanto contestatissimo jobs act non se ne propone l’abrogazione ma si dice che l’articolo 18 debba tornare ad essere “la forma prevalente di assunzione”. Sulle pensioni il programma prevede che si debba “rivedere in profondità la riforma Fornero”. Con queste premesse facile prevedere che quando si tratterà di discutere veramente un programma di governo vaghezze e differenze non potranno essere risolte. Inoltre il protagonismo irriducibile di molti esponenti di LeU non fa ben sperare su una comunione di intenti. Se poi il risultato elettorale dovesse essere modesto e ben lontano dal 10%, come accreditato dai sondaggi, la deflagrazione sarà inevitabile.
Quanto al PD, se il risultato elettorale dovesse essere insoddisfacente come lasciano presagire tutti i sondaggi, allora la minoranza prenderà forza e potrà reclamare a buon diritto una cambio nella leadership del partito. Se Renzi dovesse opporsi, come è probabile che sia conoscendo il personaggio, gli scenari possibili sono due: l’uscita della minoranza dal partito o la defenestrazione del leader nel caso i potentati interni al PD decidessero di cambiare cavallo. In ogni caso si avrebbe una scissione. D’altronde Renzi non sembra accettare l’idea che una leadership non possa reggere alla serie di sconfitte da lui inanellate. Dopo lo strabiliante 41% conquistato alle Europee del 2014, il leader Pd ha perso tutte le altre consultazioni: le regionali del 2015, le comunali del 2016, il referendum costituzionale del 2016, le comunali del 2017, le regionali del 2017. Se dovesse perdere anche le prossime politiche, le torsioni interne diventerebbero insopportabili e non senza conseguenze.
Nella Lega si è ormai già consumato uno strappo che diventerà una vera e propria scissione dopo le elezioni. Nella composizione delle liste elettorali Salvini ha accuratamente marginalizzato tutte le altre componenti, non solo quella residuale di Bossi (cui ha garantito solo una candidatura di bandiera) ma anche quelle ben più rilevanti di Maroni e Zaia. Dopo aver sopportato con appena qualche brontolio il cambio epocale della ragione sociale (dal federalismo/secessionismo al nazionalismo), l’opposizione interna a Salvini è riuscita finalmente a trovare un motivo politico. Nientepopodimeno che l’antifascismo. I fatti di Macerata sono stati strumentalizzati per la contesa interna. Salvini ha espresso un giudizio comprensivo nei confronti dell’attentatore mentre Bossi, Maroni e Zaia hanno ritenuto di intestarsi patenti di antifascismo intransigente (dopo aver accettato di governare con il MSI all’epoca del primo governo Berlusconi). Rimane il fatto che su Macerata la polemica interna alla Lega è divenuta così accesa da far pensare che l’opposizione si appresti a consumare la rottura definitiva dopo le elezioni.
Lo stesso M5S appare tutt’altro che granitico. Anzi. Nel corso della campagna elettorale, Grillo certamente si è messo da parte ed è difficile pensare che questo sia avvenuto per non fare ombra al candidato premier. Grillo, inoltre, ha voluto riappropriarsi di un blog personale per farne una nuova fucina di idee che possa prescindere dalla contingenza politica. Insomma il fondatore ha voluto marcare il suo profilo politico. E separare il suo destino da quello del M5S e della Casaleggio associati che ne continua a gestire struttura e linea politica. Difficile che di tutto questo risenta l’inerzia dell’attuale corso politico: il movimento sembra attestato su una percentuale di consenso stabile (27-28% dei voti). Ma se dopo le elezioni Grillo manterrà il suo distacco ed anzi dovesse iniziare a muovere delle critiche al M5S o semplicemente a fare proposte diverse da quelle di Di Maio, allora i conflitti interni esploderebbero in maniera clamorosa.
Infine Forza Italia. Un partito personalistico e senza cultura politica, appoggiato agli interessi di un blocco sociale storico ma ormai depauperato dalla crisi e la cui classe dirigente si è costituita intorno alle ambizioni dei personaggi. In tutta evidenza un partito di questo genere può reggere, come è accaduto in passato, sin tanto che Berlusconi garantisce prebende a tutti: agli elettori come alla classe dirigente. Impensabile che questo possa ripetersi dopo le elezioni. Il contesto economico è tale che non saranno possibili le regalie del passato. Le condizioni politiche sono tali che FI non potrà certo dominare lo scenario ma dovrà accettare di condividere il potere con competitor di pari o maggiore forza elettorale. E’ allora che ricominceranno i balletti interni di cui saranno protagonisti quei satrapi locali le cui ambizioni personali non saranno state adeguatamente soddisfatte. E’ già accaduto nel recente passato, quando Berlusconi ha perso la centralità politica a favore prima di Letta e poi di Renzi. Probabile che accada di nuovo.
Insomma, si preannuncia una tempesta perfetta. Le profonde differenze interne agli schieramenti, i processi di separazione che già si sono innescati nei partiti ed una legge elettorale proporzionalista produrranno un risultato di ulteriore frammentazione del quadro politico. Andare a rivotare in queste condizioni è assai poco saggio.
CDL, 10 Febbraio 2018