La caduta del muro di Berlino e la scelta capitalista di lungo termine compiuta dalla Cina sembravano aver realizzato quella che Francis Fukuyama aveva definito la “fine della storia” ovvero l’avvento di un contesto mondiale nel quale il lato economico era il libero mercato e quello politico la liberaldemocrazia1. Ulteriori modificazioni potevano solo assumere il significato di aggiustamenti interni a questo esito finale della storia. Sembrava infatti che la globalizzazione di tipo occidentale avesse dovuto favorire la democrazia, garantire una crescita economica indefinita, uniformare gli standard politici e sociali. In sostanza un mondo senza frontiere. Ma non è andata così.
Fukuyama si colloca nel solco di quella tradizione straussiana che interpreta la storia moderna come progressiva affermazione del liberalismo (capitalistico). Ben oltre la immediata repulsione verso le teorie finalistiche della storia e al di là delle innumerevoli obiezioni teoriche, tutte fondate, che possono essere mosse nei confronti di tale concezione, rimane il fatto che la globalizzazione ha uniformato la struttura economica agli standard capitalistici ma non ha determinato affatto l’avvento di una società omogenea e di una unione politica. Al contrario, ha prodotto un’inversione di tendenza con la riproposizione di nuove divisioni che frammentano sempre più il mondo sotto il profilo geografico, sociale e politico. Con ricadute economiche niente affatto trascurabili.
Oggi non sembra utilizzabile nemmeno la teoria opposta, quella Samuel P. Huntington sullo scontro di civiltà che pure, dopo l’attentato alle torri gemelle del settembre 2001, è sembrata per un qualche tempo più aderente alla realtà rispetto alla tesi di Fukuyama. Quantomeno lo scontro di civiltà costituiva una teoria che ben si prestava a gestire, dal punto di vista americano, la nuova fase storica2. Ne conseguiva l’idea che, almeno nell’ambito della stessa comunità, le differenze andassero assottigliandosi e rimanessero frontiere residue solo al confine con le altre civiltà. Ma anche questa convinzione è stata smentita dai fatti. Sia il campo occidentale che quello islamico sono, per esempio, attraversati da così tante divisioni come non si era mai visto in passato.
Insomma, nonostante tutto gli Stati-Nazione resistono ed anzi risorgono. In realtà per capirlo sarebbe bastato ricostruirne la storia così come ha fatto Manlio Graziano, professore universitario di Geopolitica in Francia e Svizzera, autore di un testo, “Frontiere”, sotto molti punti di vista chiarificatore3.
Si usa dire che al pari di altre specie animali, l’uomo ha la necessità di marcare e difendere il proprio territorio. In realtà non è sempre stato così. In epoca preistorica, quando l’uomo era ancora fondamentalmente cacciatore, il territorio non era affatto delimitato. Con l’avvento dell’agricoltura nasce l’esigenza di delimitare il terreno. Man mano che l’organizzazione economica e sociale si articolava in modo sempre più sofisticata emerge anche la necessità di una difesa attiva. Sorgono le città stato, protette da mura, e poi gli imperi protetti da confini naturali ma anche da costruzioni di mura e contrafforti (è il caso del limes germanico dell’impero romano e della grande muraglia cinese). In epoca ancora successiva il controllo del territorio da parte del sovrano non passa attraverso la demarcazione e la difesa di confini ma tramite il rapporto di subordinazione dei vassalli. E’ con la pace di Westfalia del 1648 che si afferma il principio di sovranità nazionale ed emerge la necessità di marcare i confini tra gli Stati-Nazione. Si tratta di un momento decisivo. Alcuni studiosi ritengono che lo Stato-Nazione sia in realtà la proiezione politica di un ambito economico, rappresentato dal mercato nazionale. Arrivando all’Ottocento e all’epoca industriale, lo Stato nazionale si rafforza sulla base dell’esigenza di creare una sovrapposizione tra l’insieme dei sudditi e quello delle forze produttive da mobilitare in funzione della competizione internazionale. Da allora gli Stati nazionali si sono combattuti senza sosta sino alla grande deflagrazione della seconda guerra mondiale. Proprio questo precedente avrebbe dovuto far pensare che la globalizzazione economica, ovvero l’espansione senza limiti del mercato economico e finanziario, avrebbe potuto evolvere in una direzione diversa che non l’integrazione politica internazionale ed avrebbe anzi potuto suscitare una ulteriore reazione “nazionale”.
Quello che è importante comprendere è che alla base del risorgere degli Stati-Nazione rimane il motivo che ne ha condizionato la nascita ovvero la necessità di delimitare un mercato nazionale da utilizzare come strumento di competizione sulla ribalta internazionale. Basti pensare alle profferte esplicite o velate che i governi europei rivolgono alle multinazionali per attrarre investimenti sul proprio territorio e fondamentalmente basate su salari più bassi e diritti meno solidi. Le riforme del mercato del lavoro approvate negli anni passati in Germania, Francia e Italia (anche prima del jobs act) si collocano in questo contesto.
E tutto questo è già realtà. Anche in Italia. Esemplare a questo proposito è la recente vicenda dell’Ilva. L’impresa potrebbe venir acquisita da una cordata nella quale il principale azionista è il colosso mondiale dell’acciaio Arcelor. La condizione posta dagli acquirenti è che il Governo italiano non si opponga al licenziamento definitivo di circa 4.000 “esuberi” e al licenziamento con riassunzione tramite jobs act degli altri 11.000 (con perdite del 30%-40% sulla busta paga). Al momento il Governo italiano ha rifiutato. Ma la vicenda dimostra una volta di più il contesto di sudditanza nel quale operano gli Stati-Nazione. Se l’Europa esistesse potrebbe opporre ad Arcelor l’argomento fondato che l’acquisto dell’Ilva le attribuisce una posizione dominante in Europa che contrasta con una corretta dinamica concorrenziale. Ma appunto l’Europa non esiste. Esistono gli Stati-Nazione.
CDL, Tivoli, 1 Gennaio 2018
- La tesi di Fukuyama era stata esposta inizialmente in un saggio, The End of History, pubblicato su The National Interest nell’estate 1989, qualche mese prima del crollo del muro di Berlino quando la situazione nei paesi dell’Est europeo era già in forte movimento ma l’esito non ancora del tutto prevedibile. Fukuyama elaborò ulteriormente e compiutamente le sue idee in un libro, The end of history and the last man, pubblicato nel 1992 e riproposto in Italia lo stesso anno da Rizzoli con il titolo La fine della storia e l’ultimo uomo.
- Anche la tesi di Huntington era stata esposta in due momenti successivi, un saggio del 1993 (The clash of civilizations? In “Foreign Affairs”, vol. 72, no. 3, 1993) ed un libro pubblicato nel 1996 (The clash of civilizations and the remaking of world order. Simon & Schuster, New York, 1996). Il libro è stato tradotto e pubblicato in Italia da Garzanti nel 1997 con il titolo “Lo scontro di civiltà ed il nuovo ordine mondiale”.
- Manlio Graziano. Frontiere. Bologna, Il Mulino, 2017, pp.24-35.
- Si veda: Democrazia Pura, La crisi delle democrazie liberali, 1 Marzo 2017; Democrazia Pura, Occidente profondo, 1 Giugno 2017.