Tafazzismo, patologia cronica della sinistra

 

 

Per chiarezza dichiaro in via preliminare la mia opinione sul “combinato disposto” riforma costituzionale/legge elettorale che, molto semplificata, è la seguente: la tripartizione dell’elettorato rende impraticabile il bicameralismo perfetto (non si possono rischiare maggioranze diverse in due camere paritarie) ed inoltre obbliga ad una legge elettorale maggioritaria (qualcuno dovrà pur governare). Infine, sul piano politico, trovo che Renzi, nonostante tutte le critiche che si possono esprimere sulla sua azione di governo, comunque si colloca nella tradizione delle democrazie liberali. A differenza di Grillo, Salvini e Berlusconi. Perché sarebbero loro, i trumpisti italiani, a capitalizzare la vittoria del No (non Zagrebelsky, non Rodotà, non Asor Rosa, non…). Fatta questa precisazione, mi sia consentita qualche considerazione sulla valenza politica del prossimo referendum.

Alla Leopolda di un mese fa, Renzi ha preso atto che nonostante tutto il suo impegno i sondaggi rimanevano sfavorevoli al Sì ed ha deciso di mutare strategia. A partire dalla sconfitta nelle amministrative del giugno 2016, si era sforzato di “spersonalizzare” la campagna elettorale puntando sui contenuti della riforma, sia pure trasfigurati dalla propaganda (riduzione dei costi della politica, semplificazione legislativa, ecc.). Ma queste argomentazioni non sembravano aver avuto un valore aggiunto. Il Sì, un mese fa, viaggiava ancora intorno al 45%, una quota ben superiore a quella attribuibile al PD ma comunque largamente insufficiente per vincere il referendum. Con un trend temporale peraltro negativo.

Era la dimostrazione che le argomentazioni “tecniche” non avevano funzionato. E così alla Leopolda, dopo aver sacrificato il tanto amato Italicum sull’altare di un compromesso con una parte della minoranza PD, il premier ha cambiato nuovamente strategia. Ripersonalizzando lo scontro e proponendo un dato inequivocabile: su un piano strettamente politico, se prevarrà il Sì avrà vinto Renzi, se prevarrà il No avranno vinto Grillo, Salvini, Berlusconi. Bersani e D’Alema perderanno comunque. Vendola non pervenuto.

05 StainoLa ripersonalizzazione della campagna elettorale certo non può essere utile a reclutare ulteriori consensi dagli elettori dei partiti schierati per il No e rimastigli ostili, né può essere persuasiva nei confronti dell’area dell’astensionismo cui non interessa il destino del premier né quello del PD. Ha invece lo scopo di convincere quella quota di elettorato di sinistra tendenzialmente contrario alla riforma costituzionale e che approssimativamente rappresenta un 20% dell’elettorato PD e quindi un 5-6% del totale. A questi si rivolge il premier ricordando il cupio dissolvi, con coazione a ripetere, di cui si è macchiata una parte della classe dirigente del centrosinistra negli ultimi venti anni. Su questa argomentazione Renzi ha deciso di puntare l’intera posta. Sa che può farcela solo recuperando l’area minoritaria del PD, sempre che la ripersonalizzazione della propaganda non convinca gli elettori di destra sinora schierati per il Sì a votare No. E’ improbabile che il recupero sia completo o che Renzi non paghi dazio a destra. Ma non può fare altro.

A due settimane dal voto i sondaggi si sono confermati sfavorevoli al Si. Da quel momento si è cominciato a ragionare sul dopo referendum, dando per scontati due eventi: la vittoria del No e le dimissioni di Renzi da premier. In tal caso la situazione politica tornerebbe ad essere quella di inizio legislatura condizionata dalla non vittoria di Bersani. In virtù della maggioranza ottenuta alla camera, il PD dovrebbe ancora farsi carico di un riassestamento politico. Ma quale PD? Pur non considerando le organizzazioni sociali e culturali ormai esterne (CGIL, Confesercenti, Arci, Anpi), la struttura di partito appare molto frammentata. A livello parlamentare le componenti di 20-50 parlamentari sono molte: renziani, bersaniani, gruppo Martina-Damiano, giovani turchi, gruppo Franceschini, gruppo Fioroni. Poi ci sono le componenti minori (Bindi, ulivisti, dalemiani, ex dalemiani, ex Sel, altri ancora). Le lobbies nazionali (Mps, Coop, Unipol) chiedono protezione ma poi si muovono in maniera autonoma.  Infine ci sono le satrapie locali (regionali e comunali) ormai autocefale,  che rispondono solo a se stesse e ai propri interessi di bottega.

Se Renzi vorrà portare il Paese alle lezioni anticipate, perderà probabilmente il controllo del partito (i vari potentati lo hanno sostenuto per ricevere copertura politica al riparo da qualsiasi rischio). Nascerà un governo tecnico o appena colorato politicamente (alla Letta) che cercherà di approvare una nuova legge elettorale per portare il Paese alle elezioni nel 2018. Ma un governo di tale fatta, anche nel caso improbabile di consenso unanime del PD, dovrà avere il sostegno decisivo di Berlusconi che sarà ben lieto di offrirlo. E dovrà navigare a vista, esposto alle bordate continue di Grillo e Salvini e sotto il ricatto ricorrente di un Berlusconi sempre pronto a rovesciare il tavolo. Il tutto in un contesto internazionale molto difficile (dall’avvento del trumpismo alla persistente depressione economica, dalla crisi dei migranti al disfacimento della UE). Chi vincerà le elezioni del 2018? Certo non il PD. E così, dopo aver sagacemente sventata la “deriva autoritaria e plebiscitaria” di Renzi, Bersani e D’Alema potranno vantarsi di aver contribuito all’impresa epica di consegnare il Paese al populismo, quello vero. D’altronde solo menti molto raffinate potrebbero pensare di cavalcare il trumpismo italiano per sconfiggerlo.

 

CDL, Tivoli, 1 Dicembre 2016